Maffeo Valeriano Piardi
(Pezzaze, 1915 - Gardone V.T. 2002)
Maffeo Valeriano PIARDI (Pezzaze, 1915
- Gardone V.T. 2002)
MAFFEO PIARDI: Maffeo Valeriano Piardi. Pezzaze, 16 novembre
1915 – Gardone Val Trompia, 20 agosto 2002. Figlio di
Bortolo Angelo (1885) detto Bianco Topo della famiglia Mafé.
Sposa Domenica Lazzari da Collio in Val Trompia (morta a Inzino
di Gardone Val Trompia, 11 marzo 2001) ed ha nove figli.
Il figlio di Maffeo Valeriano, Francesco,
l’anno 1998 così ci scrive:
“Mio padre ha lavorato in miniera a Pezzaze ed ha partecipato
alla II guerra mondiale sui fronti di Francia, Grecia, Albania
e Russia militando nel corpo degli alpini”.
Francesco, del 1946, ricorda in questa circostanza anche gli
zii, fratelli del padre: Beniamino che ha lavorato alla miniera
Tassara di Collio ed Arcangelo arruolato in polizia.
Ma, veniamo alle parole di Maffeo Valeriano, dalle quali possiamo
comprendere le sue origini e le vicende familiari e proprie.
Maffeo racconta:
<< “A mio padre toccò, delle proprietà
paterne, la cascina Ronchi ubicata 600 metri più in
su rispetto a Dendó di Pezzaze. Successivamente lui
comprò la Piocola e anche il cortile detto La Cunì,
con stalla e fienile, poi riattati quale casa di abitazione.
Al dio Giuan ghè tocàt Dendó” (...allo
zio Giovanni toccò, invece, Dendó) >>.
Dell’intervista del 3 febbraio 1998 in Inzino di Gardone,
in casa sua, alla presenza della moglie Domenica, con l’assistenza
del figlio Francesco, riportiamo, anche se in sintesi, le
tante vicissitudini della sua vita.
Contadino, poi operaio in segheria per tre anni, muratore
ed anche minatore in galleria per la costruzione di centrali
idroelettriche tra cui quella di Elvas Bolzano nei pressi
di Bressanone – Brixen.
Ciò prima di essere chiamato a prestare il servizio
militare.
Dopo il servizio militare, dal 1946 al 1947 si impiega in
miniera a Pezzaze, ditta Marzoli, principalmente in quella
denominata Regina e poi anche presso le altre essendo lui
addetto alla azione di saggio iniziale della vena metallifera.
Successivamente lavora alla Bernardelli, fabbrica d’armi
in Gardone Val Trompia, quale addetto alle macchine utensili,
per diversi anni.
Il servizio militare, precisa Maffeo, inizia a Brunico come
recluta e poi a Vipiteno al VI Reggimento Alpini – Battaglione
Vestone.
Ora, Maffeo, dopo aver accennato al fatto di aver perso la
memoria…, si incammina, brillantemente, senza alcuna
esitazione, nella descrizione della sua vita con precisione
assoluta.
<<“Vengo richiamato alle armi nel giugno del 1940
in occasione del conflitto sul fronte occidentale contro la
Francia; arrivo, ma le operazioni lampo del 6 – 10 giugno
sono già terminate.
Torno in caserma ed immediatamente si parte per l’Albania
con sbarco a Durazzo, avviato sulla zona del fronte, montagne
del Gury y Topit, Valamare e Pupatit, le due montagne più
alte, ho fatto l’avanzata ed anche tutto il ritorno
fino al mare per arrivare in Italia nel 1942 ed a giugno dello
stesso anno il mio reggimento parte per la Campagna di Russia.
Russia. Ho partecipato a tutti i combattimenti compreso quello
del 1° settembre ed ho vissuto la tristezza, l’amarezza
della ritirata. La mia preoccupazione era di trovare cibo,
in genere ce ne davano, però, in molte circostanze
ce ne prendevamo, se ve n’era, in qualunque località
arrivassimo.
Come si sa i primi che si trovavano in testa ai reparti riuscivano
a rinvenire del cibo nelle case e nelle isbe russe ma, gli
ultimi …
Ho partecipato a ben undici combattimenti per uscire dalla
sacca russa. Potrei essere più lungo ma, dico, sono
qui. Per gli avvenimenti ricordo di essere tornato a casa,
si fa per dire, a febbraio del 1943 con il treno ospedaliero
e mi avviano all’ospedale di Bari per una lunga degenza.
Successivamente mi viene assegnata la convalescenza per tre
mesi, alla fine della quale, dopo una visita medica risulto
nuovamente abile ed avviato ai reparti operativi.
Siamo nel giugno 1943. Mi presento al deposito militare di
stanza a Desenzano e consegno le carte. Assieme a me vi è
anche Fiore Ghidini da Lumezzane, mio commilitone, credo fosse
della classe 1921, anche lui reduce e convalescente. Mi rivolgo
al Ghidini e gli dico: <io non vado più alle armi>.
Qualcuno degli ALPINI ritratti nella foto datata 1936, in
cui appare Maffeo Valeriano:
* Al centro in piedi (col fiasco in mano) = Maffeo Valeriano
PIARDI, classe 1915, figlio di Bortolo Angelo detto Bianco
Topo (dei furono Maffeo e Maria Viotti) e di Caterina Rossi
(dei furono Giovanni e Margherita Bontacchio). Sposò
Domenica Lazzari;
* Seduto, primo da sinistra, Faustino Bortolo PIARDI, classe
1916, "Lasela" o Burtul di Mafé, (padre di
Don Gian Piero) andato a Susa (To); figlio di Giovan Maria
del 1875 (dei furono Maffeo e Maria Viotti) e di Margherita
Bontacchio di Semaröi (dei furono Gaetano e Angelina
Gabrieli). Cugino di Maffeo Valeriano. Sposò Pierina
Gallia da Marmentino. Faustino Bortolo, pagina personale in
http://www.piardi.org/persone/p26.htm.
* Seduto, terzo da sinistra (con le mani unite) Umberto PIARDI,
classe 1916; figlio di Bono dei detti Bone de Sante o de la
Santa (dei furono Giovanni e Rosa Facchini) e di Marietta
Gipponi (dei furono Pietro e Maria Glisenti). Sposò
Angela Bregoli.
* Sono, in ogni caso, tutti ALPINI di Pezzaze, anche se ci
è stato difficile risalire al nome ed alle generalità
di ciascuno; (in ciò ci aiutino i lettori, in particolare
quelli di Pezzaze)
Tornando da Desenzano nei pressi di Brescia
il Fiore ed io saltiamo dal treno in corsa e torniamo alle
nostre case adducendo come motivazione alle insistenti domande
dei genitori che … mi trovo in permesso.
Torno al Deposito, dopo un mese circa, per vedere se avessero
pensato … ad una destinazione per me e per Fiore. Sul
treno per Desenzano incontriamo alcune ragazze, mondine, che
tornavano dalle risaie e così io perdo … la giacca
e il cappello militari, credo nei pressi di Ponte San Marco.
Al Deposito verificano le carte e constatano la prolungata
assenza. Conseguentemente in compagnia di Fiore ed altri siamo
condotti alla cella di rigore, si stava così bene dentro
al fresco il mese di giugno! Non siamo ancora giunti in cella
quando bruscamente siamo invitati tutti ad uscire ed io mi
rifiuto di farlo. Si presenta, di conseguenza, il tenente
e di fronte alla intimazione delle baionette, esco con gli
altri e vengo condotto all’adunata generale di tutto
il Deposito per il discorso del Colonnello responsabile. L’Ufficiale
Superiore inizia quasi subito con alcune invettive su di noi
accusandoci di essere traditori della Patria …., che
avremmo dovuto combattere …, che non dovevamo….,
ecc.
Figuriamoci, avevo solo 28 anni e ciò nonostante avevo
già alle spalle accumulato sette anni di servizio militare
in guerra e su diversi fronti compresa l’Albania!
Ho lasciato che il comandante parlasse, indi, preso da un
gesto di stizza, ho trovato il coraggio per alzare la voce
e ribadire, con grave rischio, ma non era questo che mi faceva
paura, all’ufficiale le seguenti testuali parole: Traditore
della Patria sarà lei, la Patria si serve al fronte
e non qui al Deposito come fa lei, andando a pu.....e, gozzovigliando
dalla mattina alla sera. Aggiungendo: Quando lei avrà
fatto quello che altri ed io abbiamo fatto per la Patria,
potrà dire qualcosa! … Mi mandi dove vuole, ma
in linea, al fronte, non ci vado più.
Chiamati dal Tenente di servizio ci viene detto che Fiore
ed io siamo destinati a Bologna per Gaeta passando prima dal
Reggimento per essere messi alla gogna quali disertori, di
fronte a tutti…
Fisso bene il Tenente e mi avvicino a lui, quasi annusandolo
per mostrare la mia diffidenza, gli faccio notare la sua giovane
età ed inesperienza e guardando poi l’amico Fiore
dico a lui, in dialetto: <... te Fiore, èl ga amò
èl martì en sacocia, noi dicevamo martì
quando, andando a scuola avevamo con noi lo stracchino avvolto
nella polenta, sì, la polenta con det èl strachì
èn mess; lui, Fiore, èl la arda a po a lu èl
Tenent e èl dis: l’ha apena fat tin ton cadena,
chèsto! (Tipica espressione di Lumezzane per dire che
è appena stata fatta la polenta …).
Alle cinque del pomeriggio veniamo accompagnati al porto per
imbarcarci sul battello diretti a Salò.
Sul molo, al momento dell’imbarco, approfittando della
confusione creata dalla ressa, eludiamo l’attenzione
del Tenente e scappiamo tornando a casa il mattino successivo
col primo treno. A casa giustifico il mio arrivo con la risposta:
‘sono in permesso’.
Dopo qualche giorno decido che ora, forse, con Fiore, dobbiamo
andare al nostro destino e col commilitone ci consegniamo
al Deposito lacustre, senza documenti (li aveva il Tenente
che ci accompagnava a Bologna per Gaeta... qualche giorno
prima).
Al Reparto militare sfogliano la documentazione d’ufficio
e mi chiedono: cosa hai fatto? Ovviamente io rispondo: nulla.
Come nulla?, qui risulta che devi andare a Bologna e poi in
prigione. Dopo la discussione che ne segue mi faccio convincere
e vado a Gorizia ove si trovava il Reggimento e poi al Brennero.
Aggiungo, però, che mentre ero stato a casa avevo fatto
anche qualche cosa di buono, oltre che trovarmi con gli amici
per una qualche sonora bevuta, infatti avevo predisposto la
documentazione necessaria per sposarmi e le carte necessarie
le aspettavo al Reggimento quando mi viene, invece, impartito
l’ordine di tornare a Desenzano presso la falegnameria
del Deposito. Giungo sul lago e immediatamente domando il
permesso per tornare a casa e mi vengono concessi tre giorni.
Purtroppo, mentre sono a Desenzano, scoppia l’8 settembre
1943.
Li aspettavo questi tedeschi!; … io ero mitragliere
ed avrei messo in atto, forse, una personale iniziativa, poiché
con questa gente non sono mai andato d’accordo nemmeno
quando eravamo alleati e soprattutto durante la Campagna di
Russia.
Per fortuna per loro, le condizioni necessarie per un attacco
contro di essi quando entrarono nella caserma non si verificarono
e così lasciai perdere tornando a Pezzaze, dopo varie
peripezie, e mi trattengo in casa in Valle di Avano. Alla
fine di settembre mi sposo.
Non accetto di intervenire nemmeno con i partigiani, “dè
nef e de tera no pestada asè per la Patria…”.
Vivo nella zona detta dei Ruc a Pezzaze. (”di neve e
di terra ne ho calpestata abbastanza per la Patria…”).
A Natale del 1943, un certo Lepa da Pezzaze dei Bregoli detti
Carnine, reduce di guerra anch’egli, mi propone di consegnarci
all’autorità con la promessa che la stessa ci
avrebbe accordato l’ingresso immediato al lavoro tramite
lo zio Bregoli.
Io ero molto titubante … ci voglio pensare, risposi,
e... “ci sentiamo fra tre giorni, quando avrai maggiori
notizie rassicuranti”.
Certamente dello zio Bregoli, che lavorava in fabbrica, ci
si poteva fidare, però …, inoltre era padre di
un combattente di Russia mutilato, invalido di guerra, sarebbe
cioè della famiglia detti Sior Minighì (Richiedei)
che abitavano al Monte di Mondaro. Il Lepa torna dopo tre
giorni e mi assicura di quanto detto.
Consegnatici attendiamo il lavoro e subito dopo Natale alla
miniera otteniamo il lavoro e l’esonero dal servizio
militare.
Poco tempo prima, un mese dopo il matrimonio, accompagno per
la strada di montagna, attraverso i monti tra Pezzaze, Bovegno,
mia moglie che intende recarsi a Collio dai suoi non avendoli
più visti dal giorno del matrimonio.
Lungo il percorso vengo fermato in più posti di blocco
e, dopo la perquisizione sulla persona, per fortuna che non
mi han trovato il portafoglio dove avevo i documenti militari,
e superati diversi interrogatori, nonché sentito il
maresciallo dei carabinieri di Collio fermo nei pressi a presidio
dei blocchi militari, mi lasciano passare, ma poco dopo sono
costretto ad imbattermi in un ulteriore posto di blocco e,
dopo spiegazione, mi lasciano, però, andare.
Potrei aver finito sulla mia vita ma, non ho detto nulla sull’eroicità
dei reparti italiani in Russia ed in altri posti, perciò,
almeno per ricordare chi mi è stato vicino e per loro
tutti, tento, se ci riesco, di ricordare alcuni episodi o
situazioni in cui mi o ci siamo trovati durante questi lunghi
periodi. In Russia gli ultimi tre giorni sul Don di fronte
allo schieramento russo e sul limitare del fiume ghiacciato
che si presentava come una lastra di vetro ho fatto tre giorni
e tre notti da solo in postazione avanzata in compagnia della
mia mitragliatrice. Forse i tre dì più belli
prima della ritirata. Dopo che in mattinata il nemico ebbe
attaccato la 53^ Compagnia del Vestone, sono, con altri, chiamato
e spostato immediatamente alla V^ Compagnia e collocato in
postazione avanzata dove, guarda caso … c’era
l’unico posto libero. Qui trovo un certo Pendoli da
Iseo, ufficiale, poi morto nella Sacca russa il quale mi dice
che debbo svolgere il compito di sentinella sul camminamento.
Lo guardo e gli rispondo: < io lì non ci vado poiché
mi vuol proprio mandare esposto come bersaglio alle pallottole
del nemico>. Allora, dice l’Ufficiale, andrai in
postazione alla mitragliatrice, così va bene, ci intendiamo,
dico io. Al mio posto sul camminamento cui avrei dovuto andare
viene mandato un volontario fascista il quale dopo poche ore,
alle undici, lo contiamo tra i caduti.
L’Ufficiale Capitano viene in postazione e pensa di
alleviarmi un poco nell’uso della mitragliatrice imbracciandola
lui ma, con scarsissimo risultato difensivo …
Mi riprendo l’arma e le cose vanno meglio e rivolgendomi
all’ufficiale … “se fa così a sparare
non ci salviamo neanche un minuto di vita …”.
Ricordo, mi pare, che mi avrebbe proposto per la medaglia
d’argento ma lui venne a morire nella successiva ritirata,
non importa!
In Russia avevo osservato, forzatamente, una cura dimagrante
gratuita, pagata però dopo con la salute per causa
collaterali …; < La me pora l’era la fam, apena
la fam! > (La mia paura era la fame, soltanto la fame).
E’ stato nella sacca dove non avevamo da mangiare, prima
qualche cosa trovavamo…
Tra i miei commilitoni io ero l’addetto a cercare cibo
per me e per loro. Il vettovagliamento destinato ai tedeschi
era solo per loro, gli altri non esistevano. Un giorno in
cui trovai, con tanta fortuna, un po’ di miele in una
isba e ne presi una gavetta, mi vide un tedesco delle S.S.
e la pretendeva. Visto il mio rifiuto mi sparò un colpo
di moschetto e solo perché l’ufficiale tedesco
presente ha deviato la pallottola del suo subalterno non fui
colpito. Così proseguii col mio miele. Debbo dire che
ho osservato in più occasioni un pessimo atteggiamento,
riprovevole, di alcuni tedeschi, soprattutto quando li ho
visti uccidere i bambini russi. Un giorno, presente all’avvenimento
anche mio cugino Faustino detto Burtul Piardi dei Mafé,
abitante in Dendó, il padre di Don Gian Piero (1942),
entriamo dentro una casa ove vi è una madre con un
bimbo di dodici tredici mesi. Sulla stufa vediamo un poco
di latte a riscaldare. Mi rivolgo al cugino e gli dico: Burtul,
questo è per un bambino piccolo certamente, però
noi dobbiamo proprio morire di fame?, rifletto ad alta voce,
e continuo dicendo a Faustino, … se c’è
questo poco latte ve ne sarà anche dell’altro
…prendiamolo noi questo poco e così facemmo.
Salutiamo ma improvvisamente arrivano dei tedeschi che tolgono
dalle braccia della madre la creatura indifesa e la sbattono
contro il muro …
Nei giorni successivi ho visto soldati germanici che hanno
ucciso altri bambini, … usandoli come bersaglio. In
un’altra occasione ad un mio commilitone di Fraine in
Palot, un certo Francesconi, di quando ci trovavamo nella
sacca, ebbi modo di dirgli, tu che cammini meglio di me, allunga
il passo e salta nel cassone dei camion tedeschi e fatti portare.
Saltato nel cassone, dentro vi erano dei tedeschi che vistolo
arrivare dentro lo colpiscono alla testa ributtandolo fuori
dal veicolo, facendolo schiacciare dai mezzi che seguivano.
Se io avessi potuto camminare più speditamente l’avrei
fatto anch’io il salto sul cassone del camion per poi
…(farmi/ci valere contro quei...) invece a causa delle
difficoltà dovute al congelamento non andò così
e mi salvai.
A Karkow (Char’kov), alla stazione ferroviaria, di passaggio
per l’avvio al nuovo fronte, ho visto scene strazianti
di gente che implorava da bere. Io, con un altro alpino, abbiamo
pensato di portare loro acqua; l’azione ci costò
quasi la vita poiché gli ufficiali tedeschi non volevano
che si desse acqua alle persone stipate sui carri bestiame
diretti ai campi di sterminio…
Ripeto, la mia preoccupazione era la fame e non il fuoco delle
armi.
Non è facile quando si è in guerra scamparla
a tutti i costi, ma almeno, dicevo tra di me ma anche ad alta
voce, se devo proprio morire è meglio farlo con la
pancia piena dal momento che … ol vias a na èl
glià dè là l’è lonc, e co
la bogia öda … (...il viaggio verso l’Aldilà
è lungo, e con la pancia vuota...).
Cercavo sempre di unirmi con commilitoni compatibili con il
mio carattere, pure in Grecia, questo prima ancora della Campagna
di Russia, incontrai un commilitone, certo Capra di Ivrea,
della classe 1909, lo vidi subito che era un giovane dal carattere
buono e così ho preso lui come compagno d’armi
e col quale mi intendevo e ci scambiavamo le impressioni ed
anche le fatiche. Ad operazioni avviate, in Grecia, in particolar
modo in postazione d’attacco tra il Tumori e il Gury
y Topit nella zona detta della Selletta, ho avuto tre minuti
di combattimento speciale … quel giorno. In quella zona
salivano da Grabova i rifornimenti del nemico, lì proprio
davanti a noi, troppo ben esposti ai nostri tiri, non so perché
salissero questa montagna su di una strada così bene
in vista alle nostre postazioni proprio in pieno giorno. Sta
di fatto che settanta, ottanta muli su di una strada a tornanti
con l’arrivo in zona priva di boscaglia, ripeto molto
poco avvedutamente ed in pieno giorno, è stato assai
facile per noi prenderli di sorpresa sotto tiro della mitragliatrice
compresa la mia. Avendo loro individuato le nostre postazioni,
hanno risposto con una cannonata ed un colpo arrivò
nei pressi del camminamento e della baracca posti a lato della
postazione in cui io mi trovavo. Non sto a dire cosa rimase
della baracca dove riposavano i miei commilitoni ma facemmo
una semplice constatazione, la postazione di combattimento
è più sicura di altri posti meno esposti. Seguirono
poi altri colpi di mortaio. I nostri si lamentano per le risposte
pesanti da parte del nemico causate dal disturbo della mia
mitragliatrice … . Giunge il Tenente e chiede conto
dell’accaduto, ed io, con tutta semplicità rispondo
con una domanda: .. èn sa che èn guèra
… o èn ferie?… Il Tenente approva. Durante
questi combattimenti non possiamo negare che ciascuno di noi
sperava di essere colpito, se proprio, da una pallottola da
noi definite intelligenti, insomma una di quelle che potessero
causare il rinvio all’infermeria nelle retrovie e magari
anche a casa per una lunga convalescenza.
Tornando un ulteriore passo indietro, di diversi anni, voglio
ricordare che durante il servizio di leva, mi mandano a frequentare
il corso per infermieri, ma poco dopo mi riscontrano un’infermità
tale da avviarmi all’ospedale militare di Bolzano con
sei mesi di riposo. Vengo conseguentemente assegnato al VI
Ospedale Sanità da Campo. Dopo vado a Cavalese (Trento)
dove il reggimento è pronto per la Grecia. Partiamo
ed arriviamo a Durazzo con l’ospedale; secondo i comandanti
risulto guarito e perciò assegnato al reparto operativo
… non dico nulla … tanto a me la guerra non faceva
paura … e così mi trovo sulle montagne di cui
ho prima raccontato.
Un episodio allegro, faccio per dire, devo però raccontare
in questa mia lunga vita militare dando ragione a chi sostiene
che il gallo può essere sì motivo di monito
per i nostri tradimenti nei comportamenti di vita ma può
anche essere un utile punto di riferimento per salvarsi la
vita.
Parto, nel senso che inizio, dal giorno in cui non temetti
neanche il primo combattimento del settembre 1942 in Russia.
Con me era, ricorderete perché ne ho già parlato,
il commilitone detto ol Lepa, certo Bregoli da Pezzaze. Anche
dopo le forti perdite subite in linea di schieramento faccia
a faccia col nemico sul Don, 1750 uomini ridotti a 245, non
ero tra quelli terrorizzati; col Lepa avrei dovuto uscire
in perlustrazione per due ore durante la notte percorrendo
i camminamenti in posizione esposta. Ci tocca andare, non
era il mio mestiere, ma partiamo. Era una zona dove non era
possibile avere punti di riferimento, perciò facile
a perdersi tra queste immense distese …
Prima di partire ricordai che quel giorno, a mezzogiorno,
cantò il gallo in una cascina dei dintorni. Io perciò
ne tenni conto … non si sa mai, dovesse tornare utile.
A notte, come detto, partiamo e dopo alcune ore, come era
prevedibile, siamo dispersi. Non ci raccapezziamo più
per carenza di punti di riferimento e con la linea del fronte
russo a distanza di pochi metri. Potevano essere circa le
tre del mattino, calcolando approssimativamente, e a quest’ora
avremmo dovuti essere ampiamente rientrati, invece eravamo
a ridosso delle linee russe. Improvvisamente sento cantare
il gallo, questo fu la nostra salvezza poiché mi resi
conto che il nostro cammino doveva prendere esattamente la
strada a ritroso, insomma, tornare indietro e per molto. Ma
come ritrovare la nostra postazione che avevamo lasciato ormai
da più di cinque ore? Improvvisamente arriviamo dove
vi sono buche, cosiddette postazioni, dove percepiamo il fatto
che vi siano dei militari che riposano, ovviamente credavamo
fossero russi, pronti a difenderci, armati, intimiamo il “chi
va là?”, aspettandoci una reazione offensiva
e poi girarci velocemente per tornare alla nostra linea, avevamo
già le bombe innescate, all’intimazione fa seguito
una risposta in italiano e senza renderci conto eravamo tornati
tra i nostri. Comprendemmo che ciò fu dovuto al fatto
che un’ampia zona del fronte italiano era scoperta al
punto da non farci rendere conto che si trattava della nostra
linea e non di quella degli altri.
Ol Lepa (Bregoli) dice: basta Piardi, se l’om b?sada
fò stanòt, dumà … Per fürtuna
chè ghè i gai, ènfati, chèl gal
le èl ma salvàt …, l’è inutil,
i gai i ga la sò ura de cantà! (Il Bregoli dice:
basta Piardi, se l’abbiamo scampata bella questa notte,
domani... . Per fortuna che ci sono i galli; infatti, quel
gallo ci ha salvati..., è inutile, i galli hanno la
loro ora in cui cantare!). [Testimonianza di Maffeo Valeriano
Piardi (1915), Inzino di Gardone V.T. – 3 febbraio 1998].
L’intervistato si esprime in dialetto, quello antico,
di Pezzaze e della Valle di Inzino. Il testo riportato è
la traduzione letterale, più fedele possibile. Abbiamo
preferito, tuttavia, la pregnanza e la tipicità dell’espressione
correndo il rischio di possibili errori di sintassi ed altro.
(Tratto dal volume primo “I PIARDI”- Glossario
– voce: Maffeo Piardi. Edizione a cura di Achille Giovanni
Piardi da Gussago. Pezzaze, luglio 1998).
Dal secondo volume “I PIARDI”
- Glossario – voce: Maffeo Piardi. Edizione a cura di
Achille Piardi. Pezzaze, 4 Giugno 2000, proponiamo uno stralcio
dell’ampia “Voce”.
MAFFEO PIARDI: Maffeo Valeriano Piardi. Pezzaze
16 novembre 1915. Figlio di Bortolo Angelo detto Bianco Topo.
Incontro del 27 agosto 1998.
Da tempo Maffeo desiderava continuare la conversazione iniziata
il 3 febbraio e sospesa il 5 febbraio u.s., nella sua casa
di Inzino di Gardone V.T., alla presenza della sposa Domenica
e di due dei suoi figli, Bruna e Francesco, mi racconta, sofferente
ma lucido che dalla fine della guerra 1940 – 45, sta
ancora attendendo il riconoscimento dello Stato per le infermità
contratte durante il servizio militare, soprattutto durante
la tremenda Campagna di Russia.
Aggiunge, in poche parole ma con grande rammarico: “Me
ne andrò senza che lo Stato, chi ha comandato, abbia
riconosciuto i suoi figli migliori”. Infatti ancora
oggi non ha ricevuto il conseguente risarcimento nella forma
di debito vitalizio dello Stato. Gli prometto che tornerò
a visitarlo. Comunque, prima di salutarci, mi consegna come
una reliquia il composito quadro delle sue foto e di quelle
della famiglia per una possibile futura pubblicazione.
Nel 1936, da Torino, l’alpino Maffeo Valeriano sul retro
di una foto – cartolina che reca la sua effige, all’interno
di un cuore, e la scritta a stampa “ti mando la mia
fotografia e il mio cuore” mandata alla morosa, poi
sua sposa, Domenica, scrive: “Non perché vedendomi
tu mi ricordi ma, ricordandomi tu mi pensi. Tuo aff.mo Piardi
Maffeo – Baci, ciao”. ((Foto studio Posse di Piazza
E. Filiberto – Torino)).
Domenica Lazzari Piardi
13 gennaio 1999. Maffeo
Valeriano che nuovamente incontro, ora nella corsia dell’ospedale
Paolo Richiedei di Gussago, Divisione di Riabilitazione Geriatrica,
ove si trova momentaneamente ricoverato, dopo avermi riconosciuto
mi saluta cordialmente.
Rimasti soli, dopo aver salutato i parenti, dando risposta
alla mia domanda iniziale:
- “Come ala?” - (Come va?)
risponde:
- “Mia mal, ma l’è töt trèbülà
‘ndaren!, Biogna ac nalà”. (Non male, ma
è tutto un tribolare inutile!, bisogna comunque partire…).
- Achille: “Se, ma sé sa pöl nalà
piö tarde pusibil …!”
- “A se, a sta be se! Sédènò iè
töi de ‘n piö chè ghè dè
trebülà … Ades prèfèrese parter,
fa chi po’ che? A dulurà. Al dutur ga dighe sèmpèr:
‘Siur dutur al ga la re ste laur chè go sercàt
?, ste piaseèr, l’al töda sö? …
(Me go miga pora de la mort, go mai vit pora dè mörer,
gna quanc chè sere duen …? Ada chè dè
fat, el dis èl dutur, taa …, no, so asègn
me dè dagole a lü… Co ègnel sö
a fa chè …”
- Achille: “E la so Domenica? Che dighela?
- “… Pota le, la me spuda … la sarès
mia del so pareèr …”
- Achille: “Edìf!”
- “Ma ogna ü ‘l la pensa a la sò dé
salu… è la vita chè ga toca fa …
a sta le malat …, me prèfèrese isé,
… nalà!”
- Achille: “Maffeo, biogna lasaga fa ‘l sò
cors a la vita … a po sè dè le olte l’è
‘n bèl tribülà a scampà …!”
- “Se, pötos che troam che malàt prèfèrese
amò esèr al front, ‘n linea … ma
me o mai pensàt al pericol, ma sul a difindim e …
mangià. Mangià, chèl l’era ‘l
prim e quan chè restae sènsa capie piö
nigot … nae a sercà, a rampigà dèpertöt,
anche … a lagaga la pèl ma me mè ‘nteresaa
mia … almanc mörer pié, sgiuff, …
‘l vias l’è lonc a rià sö …
sè troa mia le butighe …
So mia se ga lo cöntada: a dè chi tre de dè
zèneèr ‘nsema la Saca (‘n Russia)?
Tre giorni prima della Sacca ‘n la Campagna dè
Russia, prima dè ripiegà … tredès,
quatordès e quindès gennaio 1943; tre dé
e tré nocc so restàt le, sul, co l’arma,
la me mitraglia, … e töcc chèi chè
i vignia aanti i …, me sere sota tèra e sparae
… la funsionaa be … ghè gnìt sota
tre batagliù dè russi … I tre de piö
bèi a fa m. … Sere dè per me, i oter du
compagn iera za restac morcc… Me ma ‘mpegnae be
per salvaga la pèl a töcc i me compagn del batagliù,
se fae mia isé i ma copaa töcc; l’era quel
‘l me doeèr! Sere a la 55esima Compagnia.
Una sera di queste alle undici si inceppò l’arma
e me la vidi brutta con tutti i soldati russi che avanzavano
ma, per fortuna, il sottufficiale la riparò quasi subito.
Salto all’indietro e chiamo aiuto … ora se entrano
ci prendono tutti, penso dentro di me, non per me, io non
avevo paura, non la mia pelle, mi rincresceva per tutto il
battaglione che sarebbe stato assalito ed annientato. In un
momento di confusione, pur essendo pratico ed esperto, salii
sul camminamento, luogo a tutti noto come di sicura morte
poiché molto esposto, facile al tiro dei cecchini.
Rientrai subito dopo che mi ripresi ma non prima di aver lanciato
diverse bombe a mano a mò di difesa, e non sono nemmeno
scoppiate tutte. O piandìt! O piandìt! Chèla
not lé o piandìt! (Ho pianto! Ho pianto! Quella
notte piansi!).
Giöna dè bombe l’ho tignida per me ‘n
caso i riàes mia a mèter a post l’arma
…; fortuna che dopo pochi attimi il sergente addetto
mi dice: Piardi l’è pronta! Fo per na a la postasiù
e ède chè söl caminamènt ghè
sö ‘n russo col Parabellum ‘n ma. Per esperienza
ricordo un monito: “non sparare mai per primo ma, non
essere nemmeno il secondo …”.
I Parabei (parabellum) i gà 72 colpi … sè
me parle o sè mè möe l’è finida
ma, me col me moschèt l’o fat f... . Con me in
poche ore due commilitoni erano appena stati uccisi per essersi
esposti nel camminamento di ronda … Uno di loro era
un volontario fascista, aveva già fatto la Campagna
d’Africa ed era anche stato custode di prigionieri del
Vestone ma volle partire con noi alpini anche per la Russia.
Questi prima di morire volle ancora gridare la frase ‘Chi
per la patria muore è vissuto assai!’. Coerente
fina ‘n font! Certo. Per chèl, a so mia al cuntrare
me …
Questo accadeva sul Don tre giorni prima (14, 15 e 16 gennaio
1943) dell’accerchiamento che poi subimmo dai russi.
Il 16 alle quattro del pomeriggio abbiamo iniziato a ritirarci
e viene affidato a me l’incarico di portare l’ordine
a tutta la compagnia: una squadra alla volta, mentre quella
alle spalle spara gli ultimi colpi. L’ultima è
comandata da un ufficiale bresciano il quale mi dice: ‘Prope
me l’ültem?’. Sì, il 14 gennaio 1943
alle 14 a Nikolajewka il Generale Reverberi diede l’ultimo
incitamento a noi tutti ‘a na sota’, ‘nvèrs
dè la città, senò ‘n vignìa
piö fò nüsü’! Sono partiti gli
ufficiali, c’era anche Ruggero Schileo poi funzionario
alla Camera di Commercio di Brescia, e con tutti noi.
Assieme c’è anche un certo Zani di Lavone aiutante
di fureria, che faceva il fornaio e aveva sposato una ragazza
di Pezzaze, io dietro a loro verso Nikolajewka ma subito siamo
presi di mira da una raffica di mitragliatrici che però
ci sfiora appena. Ripresici ripartiamo, è forse stata
l’ultima raffica sparata, come detto ci rialziamo e
siamo nei pressi del terrapieno della ferrovia antistante
la città.
Il Maggiore, il Capitano, Zani, Schileo ed io, pensando: ‘ormai
ghè ac dè mörer’ andiamo avanti ed
i russi asseragliati nelle case prontamente ci sparano addosso.
Io congelato ai piedi, affondo nella neve e tra i corpi dei
miei commilitoni esanimi e quasi ci rimango col rischio di
essere travolto dagli altri soldati che stavano sopraggiungendo
in forte movimento. Fortuna volle che passando di lì
un soldato col mulo sia riuscito ad aggrapparmi ai finimenti
posteriori con due dita della mano destra ancora buoni e così
fui prelevato di peso e portato verso il centro cittadino.
Quanti morcc! (Quanti morti!). Ma me go sèmper vit
l’idea de na ‘n nacc … go mai vit pora de
la mort!
Sul fronte del Don con me vi era un commilitone alpino di
Magno di Gardone certo Giovanni Resini, faceva il porta ordini,
e sempre mi incitava a cambiare posto a lasciare la postazione
della mitragliatrice in prima linea.
Lo rincontrai a casa presso il gruppo alpini di Gardone Val
Trompia, credo dopo più di venti anni. Grande fu l’entusiasmo
suo nel vedermi: ‘àrdel che ‘l nos Piardi,
chèsto se ‘l ga fat ‘l so doeèr,
sé tocc i ghìes fat chèl ‘l ga
fat lu …’ e si è messo a decantare in mezzo
a tutti i soci alpini convenuti le mie prodezze del tempo
militare in Russia.
Go mai pensàt a la mort; quanc che vidìe giü
dè noter a mörer, se ma rincrisìa fes ma
disìe almeno te ta ghet finìt dè patì
e noter saiem mia come la sarès nada a finì
…Som che a mò a cüntala noter!
Un giorno durante la ritirata di Russia stavamo per bruciare
vivi mentre dormivamo dentro una catasta di fieno posta all’aperto
nella campagna russa (‘n mia re a brüdà
sö ‘n chel trat dè fe, de fò ‘n
di cioss …). Chè l’ia stat ferìt
l’Italo Bregoli detto Fene, di Pezzaze. Andiamo avanti
diritti con tutta la Compagnia e vediamo in lontananza diverse
case oltre una spianata di campi. Dico al mio compagno Lepa
ed agli altri, Italo e Giacomo Piardi dei Pélès,
‘mentre la punta della colonna gira qui attorno al monticello
io vado a cercare da mangiare in quelle case e poi salgo lungo
la china e ci incontriamo lassù …’. Arrivato
in paese in una casa trovo un po’ di crauti ma mentre
esco sulla soglia, sopra di me, giungono improvvisamente gli
aerei che iniziano a bombardare e mitragliare la zona. Tra
i nostri rimane ferito, appunto, Italo di Pezzaze. Vicino
a queste case mi imbatto in un altro alpino pezzazese certo
Bregoli da Mondaro detto Gadèt della classe 1921, chè
l’è amò if e ‘l staa le per na al
mulì. Tento di soccorrerlo chiedendogli cosa facesse
in quel posto mi risponde: ‘so ferìt, i ma spacàt
‘n bras col mitragliament dei aparechi …’.
Serche sa ‘n stras per ligaga sö ‘l bras,
lìgheghèl e po’ nom. Ga domande ‘ègnèt
a te ‘nsema?’ …’ègne a me’…’nom
alura chè ‘n va a troas coi nos paesà’.
Mè nacc ‘n sö ma ‘n sè piö
troacc. In lontananza vedo una catasta di fieno, dico a tutti
‘andiamo e vediamo se possiamo riposare un poco al caldo
.. del fieno’. Una grande balla di fieno alta alcuni
metri e di circa trenta/quaranta metri quadri di superficie.
Le fiamme viste in lontananza provenivano da altro fieno in
combustione a seguito del fuoco appiccato al fine di potersi
scaldare infatti, altri alpini prima di noi vi erano giunti.
Tanti dormivano dentro nel fieno in apposite buche scavate
nel pagliaio per ripararsi dal vento. Ricordo che eravamo
almeno tre: il Bregoli col bras rot, me, e ‘l Giacom
di Pélès. ‘Nom’, dico io, ‘Che
‘n va sö a noter’. Sirem isè deter
‘n del büs del fé ‘n sic, noter tre
e du di oter. Sentom chi dis: ‘I brüda, i brüda’,
alura i oter du che iera con noter iè scapàcc
…, noter tre a troas le per noter paria dè eser
comodacc dè siori, ‘ndormetès!; ‘n
dorma pacifec, maginas, chè ‘n durmia mai! A
le tante ‘n turna a senter chè i dis che i brüda.
Casa sö ‘l co del fé, ‘n vèt
che ‘n ga ‘l föc, pötei, ‘nturen
a ste trat dè fé. Porco … alura salta
sö me per prim e po’ del büs tira sö
i me du soci e po’, sicome ‘l fé ‘l
fa mia la gran fiama, ‘n del föc e föm, do
a burèle, salte do me per prim, e po’ ‘l
Giacom e po’ chel co ghia ‘l bras rot; col bras
rot ‘l ga fat tat dè chèl cridà
a borelà col bras rot …! La picàt do …
Quando è arrivata la mezzanotte si è parzialmente
schiarito anche l’orizzonte e la punta della colonna
la vedevamo già arrivata al paese, ma con lo sfavore
della nebbia e dello scuro in precedenza si era divisa in
due parti. C’è stato un po’ di smarrimento.
Col chiaro gli ufficiali dopo iga ardàt le carte i
dis: ‘Chi che öl vègnèr …,
‘n serca dè nà al paès’.
Pota, fa chi po’ che, ‘n part a noter. Arriviamo
al paese e dopo tre giorni senza mangiare io, come solito,
vado in cerca di cibo e nelle case piene di soldati nostri,
nei sotterranei delle stesse, trovo molte patate. Ne prendo
un po’ infagottandole nella parte bassa del pastrano
e le consegno poi al Primo Bregoli perché le faccia
bollire sul posto mentre io con Giacomo Piardi dei Pélès
vado in cerca di qualcosa di più sostanzioso (chè
me dopo dè tre de chè ‘n maia mia gàpes
dè maià apena d’le patate? e dopo parter
turna?, ‘l ma somèa èn po’ pesante
… isé ‘n del me co …).
Andiamo al paese in centro ma prima dico a Primo Bregoli:
‘Te varda re al paröl dè le patate! In paese
ci imbattiamo in due bestie, vacche, giöna ècia
ma l’otra l’era ‘n barbì, ‘l
sarà stat tre quintai … O ades ‘n riarà
asègn dè maià ergot! … Tira do
‘l moschèt, l’è ‘ncepàt
del frèt, Giacom che ‘l ga la pistola, perché
‘l porta la stasiù radio, l’è zelada
a po’ a chèla, mè ria piö a desgancià
fò gne giü gne l’otra. A le tante so riàt
a leaga la sücürèsa al moschèt e …
la bestia è a terra.
Macelliamo la bestia utilizzando le parti più buone
e portata a casa la versiamo a pezzi nel paiolo, dopo aver
rovesciato le patate, ma iè mia nade ‘n malùra
gnè le patate …, abbiamo poi mangiato e quanto
rimasto ce lo siamo messi in tasca per il viaggio, ancora
lungo, della ritirata, eravamo soltanto alla metà del
tempo della sacca …
Un’altra sera dopo aver camminato per molto tempo eravamo:
io, mio cugino ‘l Bortolo (Faustino Piardi dei Mafé),
‘l Zani, ‘l Primo Bregoli, assieme entriamo in
paese per cercare da mangiare. Io come ho raccontato, facevo
anche un po’ di macellaio improvvisato. Per strada incontriamo
una pecora, ovviamente non la lasciamo scappare e la macelliamo.
In questa occasione abbiamo mangiato talmente tanto ma soprattutto
con ingordigia che ci coglie il sonno. Alla partenza dall’isba
accuso forti dolori di ventre, con necessità ripetuta
di abbassare i pantaloni, così mi capitava ad ogni
decina di passi … potete immaginare. Avevo dita e mani
congelate, piedi con forti principi di congelamento ed in
più pantaloni rigidi da abbassare ma che stavano in
piedi da soli … per me si trattava di una forte indigestione
che mi avrebbe potuto procurare l’irreparabile per mancanza
anche di quelle poche forze che ancora avevo facendomi venir
meno la volontà di proseguire. A guardar bene per una
sciocchezza. Non sapevo cosa fare e gli esempi attorno erano
di disperazione, di lasciarsi andare … addormentarsi
sulla neve per sempre.
Vo aanti amò ‘n tòc e po’ ga dise
al me cüdì Bortolo Piardi e ai oter: “Basta
me, go dit, vegne piö, ‘n do öt chè
naghe, chè ogna des meter go dè fermam e dè
…’’, e i dulùr i aumentaa …
Mè böte zo che ‘n d’la banda è
l’è … finida.
Insorge mio cugino Bortolo con male parole e con incitamento:
‘Nom ch’en va a ca …’, rispondo: ‘‘To
dit, se ta vöt sparam ‘n culp, l’è
‘n culp dè grasia chè tè me de!
Isè, tè se come so mort! Sé no mè
‘ndormete, ‘n dèsède gna piö,
perché zele …!’’. Lü a dim sö
parole e a tiram ‘n nacc. “Go dit chè me
vègne piö, ‘n do öt chè naghes
… go dècidit isé …”. Lur,
töi tre, a dimen sö; “Oter caminì chè
sti bé e ni a ca …”. I sè dècidicc
e iè nacc là. Me ‘ndormetèm, maginas,
le föra pista come so zo, ronche ac. Dopo dè so
mia quat, sente chè i me tira ‘n de na gamba.
Iè turna lur, iera nacc aanti en tochèl e po’
iè tornacc en dre amò dè me… .
Mi invitano: “Lea sö, nom”. Dico loro: “Sif
vignìc per tram (spararmi un colpo…) o per fa
chi …? Go dit chè dè che mè möe
piö … caminì oter”. Me sente parole…
“e i ambia a tiram là per i brass e i ma tirat
là sö la nef, ‘l Zani e ‘l me cüzì
Burtul, l’oter; ‘l Bregoli ‘l püdia
mia a iga ‘l bras rot. I mè tirat là quatersènt
o sicsènt metèr … sensa püdì
sta ‘n pé!”.
Dio l’ha ülìt!…Chè ghè
föss le ‘n camion unghères ‘n do iera
re a carga sö del legnam … e i ghè dis a
noter se mè i aida a mètèr sö ‘l
legnam per püdì na a fa ‘n put, piö
aanti, per püdì pasà söl fiöm;
sé ‘n ghe aida dopo i mè töl sö.
Mètèga sö ‘l legnam e poi partiamo.
Così percorro ben cinquanta chilometri sul camion ed
arrivo all’inizio della colonna mentre nel frattempo
si erano calmati i dolori di ventre … Maffeo l’è
turna chèl dè prima!, at üsa dè
‘n galèl! A pensà de quacc agn chè
lè co l’è mort ‘l Burtul, me cüdì
(…penso a quanti anni sono passati da che è morto
Bortolo, mio cugino)! E me so che amò! A, se ghè
miga lur tre chè ma tira là dè peso …,
a ghere za decidìt come finìla!
Zani non c’è più; con Giacom di Pélès
del didisèt ci siamo visti, l’ultima volta, alcuni
anni fa, forse due, alla cerimonia di Nikolajewka in Brescia
e subito mi ha abbracciato dicendomi: < Piardi, ta me salvàt
tre olte>, piangendo e baciandomi. Po a lü, però,
‘l ma tirat là sö la nef ‘n de la
ritirada dè Russia. Chè momèncc, pota
iè momèncc chi lè …!
Io non ho mai parlato di questi fatti (me o mai böfàt
con nüsü dè chèsti fati …) se
non fosse stato per il casuale incontro con Giovanni di Magno
al Gruppo Alpini di Gardone il quale vedendomi cominciò,
come ho detto, a raccontare a tutti le nostre fatiche e sofferenze
patite, soprattutto, in Russia.
Nemmeno il Bregoli ebbe a raccontare da civile della nostra
vita durante la campagna sul Don eppure anche lui, sebbene
fosse cuciniere, ebbe modo di venirmi a trovare quando ero
in prima linea alla postazione di mitragliatrice in faccia
ai russi.
Tutte le volte che mi incontravo durante le adunate successive
degli alpini con ‘l Gioanì dè Magn, lui
desiderava sedermi accanto (…‘l vülia sèmpèr
sta a pröf a me a mangià …) e soleva dirmi:
“Ah, ‘l Piardi Mafeo pöde mia lagal èndré,
perché l’ha fat dè le robe chè
so mia chi che avrès fade!…”.
So amò che a cüntale …o pasàt tre
dé e trè nocc, tra le tante, co la me mitralia
…
Maffeo per l’occasione ricordando intona anche la canzone
che soleva cantare sul Don quando era impegnato ad affrontare
i russi. Riflettendo ad alta voce dice: “Come ela? adès
me la ricorde piö, ada … eh… la memoria!”
E poi, intonato, sommessamente, dal momento che ci troviamo
in una corsia d’ospedale, inizia:
“O mitraglia bella, degli alpini tu sei la sorella,
non incepparti perché una mano ferma ben destreggiarti
sa. La tua canzone si manifesta tetra e micidiale per il nemico
che a plotoni sale cercando di sfondar.
Alpino, tu che dentro il cuor racchiudi ogni virtù
resisti ancor che i russi proveranno il tuo valor.
Nella tormenta se di vedetta il cuor non si sgomenta al sibilar
del vento, sempre attento per dare il <chi va là?>”.
Maffeo tornando all’ospedale e ai giorni della
degenza aggiunge:
“Qui sto bene, ci sono le ragazze giovani, infermiere
e terapiste, iè töte èce … dè
dözènt mes! … e iè chèle lé,
dè dözènt mes, chè ‘n fa scüsà!
Töte chèle eciòte lé … (di
duecento mesi).
Tutte brave, qui infatti, ho ripreso bene, ed almeno cammino.
Un tempo si diceva, riferendosi all’età delle
ragazze giovani, da marito: ‘L’è ècia
come na aca ècia …’; na olta se cüntaa
dè chèl fiöl chè l’era stat
‘nsèma co la so murusa è l’era nat
a confesàs … ‘pota, so stat ‘nsèma
co la me murusa …’, ‘quate olte’ ‘l
ga diss ‘l pret … e lü: ‘sic o ses
volte’ … ‘e erela ècia?’ …,
‘ada’, ‘l dis ‘l’ia ècia
come na aca ècia’…, ‘l pret mia tat
convinto èl ghe domanda al contadì: ‘quat
pödele scampà le ache?’ … ‘sedès/didisèt/disdot
agn’. Il prete nell’udire ciò commenta:
‘Chèl la ‘l ma amò c…., chèla
bestia!’.
Ricordo a Maffeo che oggi è il 13 gennaio, la vigilia
del primo giorno della ritirata, la Sacca di Russia, il cinquantaseiesimo
anniversario.
Lui argomenta e dice: “Arco dighel, certo, … come
dumà matina … sinquantases agn fa!”.
… Ariidis, salude Maffeo.
… Saluti, sè edom sö a ca, a Indì.
(Saluti, ci vediamo su a casa, a Inzino di Gardone Val Trompia).
[Gussago, 13 Gennaio 1999. Corsia di Riabilitazione Geriatrica
dell’Ospedale Paolo Richiedei].
Tratto dal secondo volume “I PIARDI” - Glossario
– voce: Maffeo Piardi. Edito in Pezzaze il 4 Giugno
2000
(Testo rivisitato da Achille Giovanni Piardi per le pagine
web del sito “I PIARDI”. Gennaio 2011, approssimandosi
i giorni in cui, sessantaquattro anni fa, si compì
la Ritirata di Russia da parte dei soldati italiani. E’
un omaggio a tutti loro, in particolare ai nostri Piardi ed
ai pezzazesi in armi in quel tremendo momento).
Maffeo Valeriano Piardi, l'anno 1936
>> Per approfondire
con riguardo a Maffeo Valeriano, la sua famiglia d’origine,
suo padre e suo cugino Faustino Bortolo Piardi di Mafé,
poi andato a vivere i a SUSA (TO), vedi:
http://www.piardi.org/persone/p02.htm.
Bortolo Angelo Piardi, padre di Maffeo Valeriano
http://www.piardi.org/persone/p26.htm.
Faustino Bortolo Piardi, cugino di Maffeo con lui in Russia,
http://www.piardi.org/persone/p30.htm.
PIARDI Mafé, genealogia, vedi la pagina di Don Fabrizio
Bregoli
Atto di BATTESIMO di LIVIO FIORAVANTE
REBOLDI ed annotazione di MATRIMONIO con PIARDI Lucia (sorella
di Maffeo Valeriano) da Pezzaze
Registro dei BATTESIMI. Parrocchia San Girolamo in Civine
di Gussago
CIVINE il 28 marzo 1915
“Livio Fioravante Reboldi di Angelo
e di Giuditta Botti legittimi coniugi di questa parrocchia
nato il giorno 22 marzo alle ore 8 venne battezzato dal sottoscritto
parroco il giorno 28 marzo alle ore 16. Reboldi Angelo
padre. Mariotti Enrico padrino. La levatrice Quarinelli
Catterina.
Bernardelli D. Giacinto – Parroco”.
--
Nota a margine dell’Atto di Battesimo. Contrasse
matrimonio nella Parrocchiale di Pezzaze con Piardi Lucia
nell’anno 1941.
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