I LUOGHI dei Piardi, approfondisci sulle diverse località
legate alla famiglia Piardi:
VITA DA CONTADINI: i PIARDI in Valtrompia,
in Franciacorta, (...) e nel Mantovano.
VITA DA CONTADINI: i PIARDI in Valtrompia,
in Franciacorta, nella pianura bresciana e nel Mantovano.
La Cascina, la casa colonica e la Corte, con ampia aia polifunzionale
piena di gioie, speranze e di tutte le fasi della vita di
ciascun dimorante.
La corte, la cascina o casa colonica con ampio cortile sfruttato
per ogni esigenza ed uso, nelle nostre campagne, fu per secoli
non solo la dimora della gente di campagna o di coloro che
la campagna, la terra, lavoravano, bensì la culla di
un'intera civiltà; di un peculiare stile di vita che
poco o nulla aveva a che fare con la città e molte
volte anche con il succedersi delle cose e degli avvenimenti
paesani. Nella casa colonica c'erano, infatti, altri ritmi
e altri tempi: tutto si svolgeva in perfetto equilibrio con
la natura, che, nel bene e nel male, la faceva da padrona.
Il Po a Viadana, Pomponesco, Dosolo, Cizzolo di Viadana, Brescello,
Gualtieri e Guastalla nel Seicento. (Archivio Maldotti, Guastalla.
Boedehner sec. XVII. In Opere scelte di Anselmo Mori: Note
storiche intorno a Brescello, Boretto, Gualtieri, Guastalla;
anno 1997. Edizioni Diabasis)
Vivere poi in cascina staccata completamente
dal paese, come accadeva in quelle della bassa pianura bresciana,
era addirittura un altro mondo, ti dava però la certezza,
anche nei tempi più bui, di una casa e di un lavoro
(necessario per sfamare famiglie sempre più numerose),
anche se questa certezza era legata alla sottomissione padronale
necessaria per evitare inattesi traslochi a San Martino, l’11
di novembre, con la fine ufficiale dell’affittanza agricola
coincidente con il termine dell’annata agraria. In quelle
ove dimoravano i Piardi del mantovano si traslocava il 29
Settembre, a S. Michele; infatti, si usava dire “…
fa San Michel”, in luogo del “… fa San Martì”
dei cugini bresciani, franciacortini e valtrumplini.
Vivere in campagna significava sicuramente fatica, miseria,
talvolta la derisione della gente di paese, che apostrofava
i contadini ed i loro figli con parole e detti poco edificanti.
Significava, tuttavia, anche solidarietà, condivisione
d’esperienze con uomini in simili condizioni, entusiasmo
ed orgoglio per lavori ben eseguiti, che la terra, quando
si mostrava generosa, ripagava con buoni frutti.
Ancora nella prima metà del Novecento, il tempo qui
si era un po’ fermato: sopravvivevano riti e tradizioni,
religiose o pagane, ormai scomparse nel vicino centro abitato.
Le cascine erano microcosmi autosufficienti. Talvolta per
il numero di persone che vi abitavano (come in quella della
bassa bresciana con anche cento - centocinquanta) erano piccoli
paesi, con tanto di scuola, chiesa e talora negozio, dove
tutto era perfettamente organizzato.
In Franciacorta erano di minore possanza e non così
staccate dal contesto paesano; così come quelle di
Valtrompia, in particolare della valletta laterale, lungo
il corso del Morina, ove è ubicata Pezzaze. Entità
ed agglomerati umani più piccoli anche se in Valle
di Dèndó, sotto Avano, come nello stesso sito
di Avano, esistevano vere e proprie comunità: èn
Dèndó la casa dei Piardi Mafé e quella
dei Brine almeno sino 1930 con Gioan de Dendó “Grillo”
poi al Rifugio PIARDI al Colle di S. Zeno, quest’ultima,
un tempo e sino al 1850, un’unica originaria famiglia
Mafé (antichi Mafecini/Mafucini); ma in valle di Avano
sulla destra salendo, poco prima di quella dei Piardi posta
a sinistra, vi era la cascina o löc “giöstachì”,
anch’essa, come la precedente, piena zeppa di marmocchi:
“Crocc” e “Crote”, sé dizìa
(didìa) èn chi tep a Pedade; ancora in Pezzaze:
al “Fedöm” (Fisomo) quella di Maffeo Piardi
di Mafé; in Castegnàccolo, podere co giü
bèl löc, èl Cino Piardi (Francesco Raffaele)
dei Brine detto, appunto, Cino de Castegnàcol.
I fabbricati ben s’integravano con quanto li circondava:
gli spazi non venivano mai forzati, si tendeva ad un graduale
adattamento all'ambiente, con il fine di raggiungere un perfetto
rapporto tra uomo, casa e terra. Ogni zona ed ogni fabbricato
erano in relazione con una precisa funzione produttiva, nulla
era lasciato al caso. Quindi c'erano fienili per riparare
il foraggio, portici per gli attrezzi agricoli e granai per
le sementi; stalle e stallette per buoi e mucche con accanto
l'abitazione del mandriano.
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In alcuni grandi cascinali l'abitazione
dei proprietari (spesso trasferitisi in città) era
simile ad un palazzo e veniva utilizzata saltuariamente come
dimora di campagna. Anche dove vi fosse la casa del proprietario,
abitante in città, in genere di lusso in cascina non
se ne vedeva, non c'era ostentazione e su tutto regnava sicuramente
la miseria delle abitazioni dei salariati, che erano comprese
nel contratto di lavoro degli stessi.
Nei luoghi mantovani dei Piardi vi erano molte Corti rurali
delle quali una gran parte sono ancora esistenti, alcune anche
ristrutturate.
A Cizzolo e S. Matteo delle Chiaviche con quella detta Correggioli,
posta nella zona fluviale golenale del Saliceto (ora pioppeto)
di Ponte d’Oglio (antica Torre d’Oglio) e quelle
altre note col nome di: S. Matteo; Bertìa dotata di
vezzosi pilastri d’ingresso con elegante casa dei padroni;
Nuova; Turchetti sul Canale Fossola con casa padronale databile
al secondo Cinquecento; la Mottella a Sabbioni di San Matteo
in riva d’Oglio. A Salina, sempre della città
di Viadana, la Corte DONDA [oggi la Corte è un Agriturismo
con bellissimo museo dedicato al vino, che raccoglie vecchi
oggetti e strumenti nei suggestivi locali della cantina] appena
all’esterno di Pomponesco.
In Pomponesco, antica terra dei Piardi sin dalla fine del
Quattrocento – che ad oriente ed occidente il borgo
si espande lungo due direttrici perpendicolari partenti dal
centro dei due lati perimetrali dell'area del castello –
negli angoli troviamo, ancora oggi, imponenti corti chiuse
che attestano la prevalente attività agricola del territorio;
con anche il sopravvissuto Palazzo Rosina (…a Pomponesco
i Piardi sono anche Piardi-Rosina), oltre alla Corte Savazzi
nei pressi di Banzuolo (località, quest’ultima,
un po’ sotto la giurisdizione del Parroco di Viadana,
un po’ di quello di Pomponesco).
Nella campagna dosolese la corte Mottella, in frazione Villastrada
di Dosolo la Corte Garagna, quella detta Ghirardina con al
centro un’aia di ben 700 metri quadrati destinata, principalmente,
alla trebbiatura, e la Corte agricola di Villa Bertona.
A Ponte XXI di Curtatone quella di Giuseppina Piardi - figlia
di Oreste, con il suo bel Cascinale, fulcro dell’azienda
agricola a carattere familiare ancora attiva.
Nell’Alto Mantovano: a Barchi di Asola con Faustino
dei Brine, Piardi originari di Pezzaze; a Casalmoro con i
Piardi detti Ciong, qui trasferitisi da Pezzaze - Val Trompia;
a Ceresara.
Più giù, verso la foce del Po: le corti rurali
della zona di Serravalle Po e di Sustinente ove sono vissute
alcune famiglie Piardi.
Altri Piardi nei “loghini” presso le zone golenali
del grande fiume, come in quello detto “Fenil Rami “
a Cizzolo, tanto caro a Vincenzo Piardi (1887) sposato a Silvia
Fermina dei Rosa di Dosolo, posto sulla strada per l’omonima
località fluviale del Po. Questa zona nella grande
ansa fluviale con, in riva sinistra: Dosolo, Cizzolo di Viadana,
il sito all’altezza dell’affluenza dell’Oglio
nel Po e quella, in riva destra o sud con le, quasi “dirimpettaie”,
terre di Tabellano, Torricella e Sailetto è, da sei
secoli, detta “Canton dei Rami”. Ancora nel 1717,
lo si rileva da una Mappa coeva tracciata proprio in occasione
di una rotta alluvionale, custodita in Archivio di Stato di
MN (MCA, Ingegneri camerali, b. 13), è esistente nel
Cantone dei Rami un porto – traghetto che collegava
la sponda di Torricella con l’opposta Cizzolo. Si vede,
anche, che il tratto di argine esistente in detto Cantone
era tutto in “froldo”, cioè col fiume a
diretto contatto. La parte del fiume in costante aderenza
all’argine maestro (leggi, “froldo” e ove,
in genere, veniva ancorato, per mezzo di una lunga catena,
il mulino natante) o quella in un tratto di facile erosione
è detta, nel linguaggio del Po, “piarda”.
(a), (a1), (a2).
(a). {Rami: << la nobile ed antica famiglia dei Rami
è presente nel territorio di Torricella, forse sin
dal Cinquecento, quale proprietaria del lembo nord ovest di
detta comunità fluviale sulla riva destra del PO, quasi
dirimpettaia di quella di Cizzolo posta in riva sinistra.
In Torricella (antica curtis Turricelle) vive in antagonismo
con i suddetti Rami la famiglia dei notissimi Negri. La presenza
dei Rami nelle terre che affiancano la grande ansa del Po
all’altezza dell’affluenza dell’Oglio è
tramandata anche dalla toponomastica che ancora oggi identifica
il sito con la denominazione di “Canton dei Rami”.
Quest’area geografica è andata soggetta nel tempo
ad un’intensa modellazione da parte del Po che, sia
probabilmente per cause tettoniche sia per turbolenze prodotte
dallo sbocco dell’Oglio, ha subito continue e brusche
oscillazioni di tracciato. I Rami o Rama erano detti in origine
Ramedelli. Di loro si fa già menzione nel ‘300
(D’Arco, vol. VI, pagina 282). Alla fine del Cinquecento
Carlo Rami, grazie a tre matrimoni, mise al mondo altrettanti
figli: Fabrizio che fu capitano e morì di peste nel
1630, Fabrizio e Massimiliano. Da questi due fratelli si originarono
le ultime linee genealogiche della famiglia, destinata ad
estinguersi di lì a poco. (…). (…) >>.
I beni in Torricella passeranno agli Alberigi originari di
Firenze. (Carlo Parmigiani. Fra Po e Zara – Storia de
territorio e delle corti di Motteggiana. Editoriale Sometti
– Mantova, febbraio 2005)}.
(a1). [Loghini: pregevoli costruzioni rurali, frutto della
nuova fase di frazionamento proprietario che venne imponendosi
fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.
<Il loghino può essere considerato come un’ulteriore
semplificazione della casa ad elementi giustapposti (buon
sistema tagliafuoco), infatti, consta anch’esso di due
elementi fondamentali (abitazione e stalla/fienile) che vengono
però riuniti in un edificio ancora più compatto
venendo a mancare sia il “salto del tetto”, sia
il porticato aggettante all’esterno. In luogo del portico
fa (può fare) la sua apparizione in questa struttura
la cosiddetta “porta morta” o portico interposto
che “costituisce il collegamento più diretto
e obbligato fra l’abitazione e stalla fienile”.
(…). Questo vano utilizzato alla stregua di un comune
portico, rappresenta – in ambito lombardo – una
caratteristica esclusiva del Viadanese, derivato da un prototipo
tipicamente emiliano, particolarmente diffuso nella zona parmigiano-modenese.
(…). E’ un’unità immobiliare destinata
ad una piccola famiglia di coloni, è una tipologia
architettonica importata nel Viadanese dalle zone di Bonifica
della Bassa reggiana e parmense. Rappresenta la riduzione
all’essenziale del sistema “casa rurale”,
come tale, in termini funzionali, non è riuscito a
sopravvivere ai grandi mutamenti tecnici sopraggiunti nell’agricoltura
nella seconda metà del Novecento >. Alberto Salarelli.
La casa rurale nel Viadanese. Comunità e insediamenti
alla fine dell’Ottocento nel distretto di Viadana. Editoriale
Sometti – Mantova, aprile 2001].
(a2). [Terre rivierasche del Po. (…). Essendo in questo
territorio molto frazionate le proprietà, vi sono tutti
i piccoli proprietari di loghini di una, di due e tre biolche
di terra, i quali ricavando da queste quasi il fabbisogno
della propria famiglia e non tralasciando di andare a lavorare
come semplice giornaliero negli altri fondi, sono nutriti
in proporzione del loro bisogno, non solo, ma sono veramente
essi il prototipo della gente felice, perché ai pochi
bisogni fisici e morali hanno il modo di completamente soddisfare.
(Attilio Magri, settembre 1878). www.italmensa.net]
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L'edilizia rurale di queste zone accompagna
tutto il paesaggio, con edifici di notevole pregio. In molti
casi, soprattutto in golena, va registrato con tristezza l'abbandono
di fabbricati rurali. Indubbiamente, si tratta di un oneroso
spreco di risorse. Nella citata Cizzolo, sino agli anni Cinquanta
del secolo XX, come sostengono i cugini Walter (1922) figlio
di Vincenzo (1887) e Licio di Pilade, i Piardi della famiglia
di Luigi (1857) detto Pinta, fratello di “Pacion”
Guglielmo (1870), ancora conservavano casa sulla piarda, al
centro della golena alluvionale tra Oglio e Po, a 12 miglia
dal capoluogo Viadana. (b)
(b). [Il territorio di Viadana si estende su una superficie
di 102,5 Kmq: è, dunque, uno dei comuni più
vasti della Lombardia. Una vasta estensione di questo territorio
si trova in zona golenale. Infatti, gran parte dei confini
del comune sono delimitati dai fiumi Oglio e Po che confluiscono
in territorio viadanese in zona Torre d'Oglio. La golena di
questi due fiumi, in particolare la zona della confluenza,
rappresenta certamente una grande attrattiva ambientale per
la presenza di un vecchio ponte in chiatte sul fiume Oglio,
uno degli ultimi nel suo genere, di qualche lancia e per interessanti
percorsi in una natura insolita; ma essa è, oggi, quasi
interamente utilizzata per la coltivazione del pioppo. http://www.spiderlink.it/notizie2.html.
La coltura del pioppo. Questo tipo di coltura, che di per
se non risulterebbe dannosa all'ambiente, lo diventa nella
misura in cui spesso vengono sacrificate vaste zone di ambiente
naturale per ottenere nuove aree di produzione. (…).
I canali. Se il Po e l'Oglio caratterizzano una parte notevole
del territorio del Comune, non meno importante è il
contributo dato alla sua costruzione dalla presenza di numerosi
corsi d'acqua artificiali, realizzati nel tempo con lavori
di bonifica di un territorio da sempre gravato dal problema
delle inondazioni. Questi canali si sono inseriti ormai da
tempo nell'ambiente e a loro volta hanno contribuito a modificarlo
tanto da condizionarne, oltre all'aspetto, le caratteristiche
tipologiche produttive. Sulle rive di questi canali sono sorti
spesso complessi cortilizzi di carattere produttivo, che dimostrano
come l'opera dell'uomo non sempre interferisca. Le corti.
Queste corti, punti di riferimento di vaste zone, oggi rischiano
più che mai di scomparire. In effetti, da un lato la
meccanizzazione dell'agricoltura e dall'altro l'aumento del
costo del lavoro hanno fatto sì che i fondi agricoli,
anche quelli di vaste proporzioni, non richiedano più
la presenza di numerose quantità di salariati. Ai due
fenomeni indicati s'aggiunge l'inarrestabile tendenza non
esclusiva del viadanese - dell'abbandono delle campagne da
parte degli agricoltori; inoltre, l'acquisto di terreni e
di opifici destinati all'agricoltura da parte delle aziende
operanti prevalentemente in altri settori, ha determinato
l'inesorabile declino delle corti rurali: l'abbandono, abbattimento
o il destino di rudere. http://www.spiderlink.it/notizie2.html].
Per "LE CORTI
RURALI DEL MANTOVANO" vedi foto in VIADANA
Tralasciando di parlare dei fasti e delle
magnificenze della corte gonzaghesca, trasferiamoci nelle
antiche corti rurali dell’Oltrepò mantovano.
Qui di certo non si organizzavano grandi banchetti, e dalle
cucine non uscivano piatti elaborati, ma la frutta era coltivata
ugualmente e l'ingegnosità delle "rasdore"
sicuramente aveva già scoperto come conservare i preziosi
prodotti preparando marmellate e mostarde. La terra in queste
zone è sempre stata molto fertile grazie anche agli
interventi di bonifica dei Benedettini e dei Gonzaga, e il
prevalere della piccola proprietà ha fatto sì
che si sviluppassero colture orientate alla massima intensità
colturale, quale appunto la frutticoltura. Giovanni Antonio
Magini ci ha lasciato un'efficace descrizione di queste terre:
"Vi sono infine in questo stato mantovano acque, che
vengono di soverchio presso il territorio humido e morbido
et in particolare verso mezzo giorno ove è tutta pianura
fertilissima e abbondantissima di formento, biade, legumi,
lino, riso, frutti d'ogni sorte, e di vino al pari di qual
si voglia altra parte di Lombardia, producendo d'avvantaggio
più del suo bisogno, si che per lo più fanno
parte del loro raccolto i Mantovani ad altri luoghi circonvicini,
che n'hanno di bisogno.". (In: Pera dell'Oltrepò
Mantovano, a cura di C. Malagoli). La frutticoltura diventerà
poi il vero punto di forza del basso mantovano negli anni
‘30 del 1900 con un'abbondante produzione di mele, pesche
e pere. Oggi, anche se soppiantata dalla pera, la mela ha
ancora un ruolo importante nella zona, fortemente radicata
al territorio e alle sue tradizioni gastronomiche e anche
alla sua espressione artistica. (La strada della mela dell’Oltrepò
Mantovano - www.agriturismomantova.it/ita/Percorsi_Mele.asp)
Nel territorio mantovano esistono vari modi per conservare
il ricordo di un mondo rurale purtroppo oggi ormai quasi scomparso:
due tra questi sono i musei della civiltà contadina,
che raccolgono attrezzi e utensili cercati pazientemente o
donati negli anni, e i musei familiari, vale a dire collezioni
di oggetti all'interno delle aziende agricole e agrituristiche,
che spesso fanno parte della storia dell'azienda e della famiglia
stessa, testimonianze utilizzate generazione dopo generazione
fino a pochi decenni fa. Nello spirito di creazione di un
fascinoso itinerario demologico (delle tradizioni popolari),
che si cala in una realtà che riteniamo sopravvissuta
solo per la buona volontà degli amanti delle cose d'un
tempo, in un contesto storico che si può definire "di
tradizione", nascono i "musei contadini e dei mestieri",
disseminati nella provincia mantovana. Si tratta di uno straordinario,
pur se a lungo occultato, patrimonio culturale che rivede
la luce con l'intento di salvaguardare dal completo oblio
quella che si può definire una "memoria sociale",
conservando le ultime testimonianze di una cultura millenaria
che ha subìto una progressiva mortificazione, ma che
ora sta prepotentemente riacquistando la dignità che
le compete. Non si tratta di insignificanti ed isolate raccolte,
ma di un'autentica rivisitazione di una cultura che si trova
sì alle nostre spalle, ma dalla quale, fortunatamente
non ci siamo affrancati. Ciò senza volersi perdere
in anacronistiche nostalgie, ma nel rispetto e nell'esaltazione
delle radici umane, storiche e sociali della nostra gente.
E prima che ogni cosa fosse perduta per sempre; prima che
fosse cancellata dalla memoria, vi è stato chi ha creduto
di onorare un passato impregnato di fatica, di miseria e di
fame, senza con ciò mistificare in una vuota sublimazione
in chiave folklorica, una dura realtà, che spesso,
troppo spesso, fu di volgare sfruttamento e di brucianti umiliazioni.
(…). Il museo più noto e più completo
riguardante le testimonianze del mondo contadino in provincia
di Mantova è, senza dubbio, il Museo della Cultura
Popolare Padana di San Benedetto. (…). (…). Nelle
sale del complesso benedettino sono stati ricreati gli ambienti
della casa rurale di una volta. (…).
Interessante è il Museo di Ecologia Culturale sito
alle GRAZIE di Curtatone.
Museo del Po. Nel 1990 è stato istituito il Museo del
Po di Revere, che riunisce reperti preistorici relativi ad
un villaggio della cultura delle Terramare ritrovato nella
zona, e testimonianze più recenti sulla vita attorno
al fiume Po. (…). (…).(Memorie di cultura contadina
in provincia di Mantova. www.agriturismomantova.it/ita/Percorsi_Mele.asp)
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"Le donne mantovane hanno la bellezza
solida dei cavalli gonzagheschi, eternati nei monumenti al
Colleoni o al Gattamelata" scriveva Alberto Denti nel
volume "Il gastronomo educato" e, certamente, aveva
in mente non solamente l’aspetto esteriore delle donne
mantovane, ma anche la loro straordinaria abilità di
cuoche in una terra di storia, di nobiltà, ma anche
di memorie contadine. A chi la visita per la prima volta Mantova
appare come una città antica, sonnolenta, un po’
snob, con i suoi palazzi signorili e i fasti di una nobiltà
ormai perduta. Ma appena si muovono quattro passi in campagna,
ecco che compaiono le grandi cascine, con le ampie corti piene
di cagnetti, le nebbie che lo velano come affascinanti abbracci.
Terra di contrasti che si armonizzano, la padanissima Mantova
ha conosciuto lo svilupparsi di una cucina cortese per i cavalieri
e le dame della corte, e il parallelo sopravvivere di tradizioni
contadine, saporite, che sapevano di legna e odore di brodo,
di agnolini e di gras pistà (il battuto di lardo per
insaporire il pane). Silvia Maccari, che, nonostante la sua
passione per i viaggi non ha dimenticato le sue radici, l’odore
della cucina della nonna, le mele che dopo un po’ sanno
di naftalina, le galline del cortile, ha raccolto e pubblicato
(…) un agile volumetto che s’intitola appunto
"La cucina mantovana" (…). (Mantova, come
andare a caccia di antiche tradizione gastronomiche. A cura
di Laura Rangoni. http://old.lapadania.com/2000/gennaio)
In Franciacorta:
- a Navezze di Gussago, la casa colonica e padronale di Achille
(1880) e Angelo (1878) figli di Ernesto, con esteso cortile
ove crescevano e son cresciuti, quali coetanei, sino a tutti
gli anni ’50 del XX secolo i Piardi e seppur limitatamente
agli anni ’30 ben 36 tra bambini e ragazzi;
- al Vicolo dell’Alfiere di Gussago, nella colonica
casa della sposa Maria Venturelli, vi è Giuseppe Piardi
(1906) con dimora provvista di camere da letto al piano superiore,
di stalla, fienile “col trat dèl fe madür…
asègn dè taià zo a squader, co la taiadura”
(foraggio che si tagliava a cubi o a forma di parallelepipedo
per mezzo dell’apposito utensile a doppia lama e leva
a forma di vanga con l’appoggio per il piede onde poter
far forza, oltre a quella delle braccia), tratto di fieno
sul quale i ragazzi saltavano (saltavamo) da un dislivello
all’atro, loggia e porticato, l’ampia cantina
che vede la presenza di grosse botti, tini e vezze (èze)
di legno per il vino in attesa di maturazione o per l’invecchiamento,
col profumo di mosto e poi d’inebriante vino che invadeva
l’antistante cucina;
- quell’altra di Gino Cesare nel territorio gussaghese
detto Piazza, nei pressi della Breda (podere cinto da muri)
degli Odorici, e, negli ultimi anni della sua vita contadina,
in quella nuova rurale posta lungo i pendii nord del Colle
Barbisone, ai piedi del sovrastante ex monastero benedettino
detto Santissima;
- nel centro della frazione Piazza e in fondo a via Roma (di
proprietà di Bigì Lisna – Bonometti),
quella abitata e condotta da Luigi Piardi [(1890 - 1951) figlio
di Enrico (†1921)] con i figli: Achille Andrea (1915),
Giacinto, Giovanni e Enrico Natale (1925);
- quell’altra ancora ubicata all’inizio della
Val Morte di Gussago, sempre del suddetto Bonometti, nota
come Cascina Ronconi da qui l’ulteriore soprannome di
“Runcù” ai suddetti Piardi figli di Luigi,
originariamente “Catanì”, a partire dal
1927, anno d’inizio della loro nuova condotta agricola
in detta cascina. Podere con cascina posta a mezza costa,
sul pendio Sud-Est del Dosso dei Cugni, con veduta che si
stende sulla valletta di Navezze, sull’intera Gussago
e Brescia, sino alla striscia autostradale Milano-Venezia;
- nella pianura bresciana (dai primi anni trenta del Novecento)
in quel di Calcinato, Ghedi e Montichiari le cascine dei Piardi
detti Pelès, originari di Pezzaze, alcuni tuttora operativi
sulla dura terra.
Talvolta, le abitazioni del cascinale erano poste su due piani:
la zona giorno al piano terra e le camere sulla loggia superiore,
alla quale si accedeva tramite un'unica scala esterna di legno.
Dei servizi igienici...neanche l'ombra! Per queste esigenze
c'erano rive e fossi a volontà e nei casi più
avanzati erano sufficienti quattro assi sulla fossa per il
letame (büsa dèl ledàm, büda dol lüdàm
= concimaia)! Per la notte tornava invece utile il vaso di
latta o ceramica, bucàl o bocàl, che veniva
svuotato la mattina dopo dalle donne di casa! In alcuni casi
nella camera da letto era presente la "toaleta"
ovvero brocca e catino per lavarsi mani e viso e… le
parti intime, dopo l’amore coniugale notturno, quando
capitava.
Esistevano, però, anche famiglie molto più povere
che si riducevano a vivere in un unico stanzone freddo (per
la carenza di legna, appena sufficiente per cucinare) e buio:
i vetri forse non c'erano e venivano sostituiti come si poteva!
In questo caso la zona notte veniva creata separandola dalla
cucina con una tenda: qui i genitori dormivano nel letto matrimoniale,
sul quale spesso pendeva una culla artigianale con dentro
l'ultimo nato.
Gli altri membri della famiglia dormivano (anche per terra)
su poveri materassi di scarfoi (bratee del granoturco) ed
anche: “giü al co e giü ai pè”.
Ospiti notturni erano inoltre le gabbie delle galline, poichè
in tempi così miseri la tentazione di "sgraffignare"
un pò di carne poteva assalire chiunque avesse avuto
a casa otto o nove bocche da sfamare. In ogni casa il mobilio
era ridotto all'essenziale: non mancavano mai il camino per
cucinare, con il grande paiolo per la polenta in bella vista;
èl casù de la farina: madia per la farina e
la crusca; il grande tavolo di legno e le sedie impagliate.
Per i più piccini esistevano alcune varianti dei moderni
seggioloni: erano scagnù con il buco per i bisogni
(allora non esistevano i comodi pannoloni usa e getta!) ed
in alcuni casi l'assicella antistante che fungeva da chiusura
di sicurezza era incava per permettere alla mamma di sbriciolarci
pezzetti di polenta, che il bambino avrebbe afferrato con
le manine, imparando in tal modo a mangiare da solo.
I vari utensili erano appesi ai muri, dove poteva venire appesa
anche la moscaröla, una specie di cassetta ricoperta
con della rete a maglie fini per riparare alcuni alimenti
dall'assalto degli insetti e nel contempo lasciasse passare
l’aria. Il frigorifero in molti casi c'era solo d'inverno
(…sul davanzale della finestra!), anche se alcune cascine
disponevano di una grande ghiacciaia e del forno comune. In
Valtrompia si usava anche èl sìlter, in proprietà
od in affitto ed anche comunale dato in gestione a terzi.
(1).
(1). [Silter. << Silter = ciltero. Ripostiglio, cantina
a volto per la conservazione degli alimenti durante l’alternarsi
delle stagioni >>.
1589. Dagli Annali di Bovegno in Val Trompia per l’anno
1589 il 19 di giugno si legge: “Compra del Commun di
Bovegno da Laffranco Masello d’un ciltero terraneo in
c.ta del Castello sotto la casa giuridica di esso comune a
mezzodì parte la Piazza a cui confina a sera …;
nel prezzo di lire 140 planette”.
Angelo Secondo Viotti (1916) precisa: “Termine col quale
si individuava, ma ancora oggi usato, il luogo, ovvero dispensa,
o locale a volto utilizzato per la conservazione degli alimenti
da consumare gradatamente nel tempo, dotato di temperatura
costante pur col mutare e l’alternarsi delle stagioni.
Noi alla nostra casa ne avevamo addirittura due, avevano anche
un valore commerciale ben definito e spesso si assisteva ad
atti di compravendita di detto locale. Uno dei nostri era
detto “èl silter vècc, sota la cà
ècia’, e che dè sa ch’èl
nöf, èn do metìèm ‘l formai.
Se, iera do cantine, (a olte a olt) ènfati!”.
(Testimonianza in Pezzaze, 8 gennaio 1999, a cura di Angelo
Secondo Viotti nato l’anno 1916) >>. (Da “I
PIARDI” vol. I).
1785. PEZZAZE . Dal Libro Consigli della Comunità di
Pezzaze, 9 maggio: sono presenti quali Consiglieri: Batta
Piardi Bonino, Antonio figlio d’altro Piardi e Batta
Piardi q. Francesco. A Francesco q. Bono Piardi Bonas viene
assegnato, a seguito di pubblico incanto, ‘l’affittanza
del Siltero o Fondico sotto la Torre in Mondaro d’anni
cinque in lire dieci all’anno (…)’.].
C'era anche chi possedeva una cosiddetta "cucina economica"
a legna che fungeva da: piano cottura, forno, scalda acqua
e nella quale, la sera, si raccoglievano le braci per riempire
gli scaldaletto e le scaldine da porre (tra i legni e le latte)
delle moneghe per dare un po’ di tepore alle lenzuola
ghiacciate. La vita comunque si svolgeva soprattutto all'esterno:
seduti su piccole seggiole o su qualche gradino a rammendare,
aggiustare attrezzi o semplicemente per dividere una scodella
di minestra o per chiacchierare.
Svaghi non ce n'erano: l'isolamento era quasi totale! Capitò,
a volte, che qualche giovanotto si cimentasse nella sistemazione
di una stanza, per trasformarla in "sala da ballo o da
ritrovo". Quando la cosa riusciva, era un avvenimento:
un affronto alla miseria ed un dispetto alla rigidità
morale di quei tempi. Le ore passate in quegli improvvisati
bacanì, in una cascina immobile e sepolta dalla neve,
sono restate impresse nella memoria di chi le ha vissute.
La cascina fu quindi un mondo a parte: qui si nasceva, si
cresceva, talvolta ci s’innamorava, si metteva su famiglia
e si moriva. In essa si trovava un forte senso di protezione
e, anche se la miseria patita allora è per alcuni ancora
motivo di sofferenza e di negazione forzata di quell'epoca,
molti altri ricordano comunque con affetto quella stagione
della loro vita.
Ad esempio, intorno al borgo di Gussago la verde campagna,
non sempre era generosa nutrice. Nei campi crescevano il grano
e il granoturco, la nostra pianura e le colline erano ricche
di vigneti, gli alberi di pesco come a Ronco e di caco si
facevano largo qua e là tra le piante di ciliegio,
quelle dei duroni “Càlem” e le amarene.
Arrivato l’autunno gli uomini tagliavano il granoturco,
le donne e i bambini più grandicelli si mettevano a
‘scarfoià’ (scartocciare, levare le brattee
della pannocchia, quelle foglie, a più strati, avvolgenti
la pannocchia, quasi ermeticamente) sotto i portici (portec
de ca) e sulle logge (loze), mentre le bambine più
piccole con i ‘riccioli’ (barbe) scuri e con quelli
chiari delle pannocchie facevano fluenti chiome alle bambole
di pezza cucite dalle nonne o dalle mamme; a loro facevano
eco i maschi più cresciuti che, tentando di imitare
i grandi, si ponevano sotto il naso, a mò di baffi
fluenti, le barbe dèl canù . Quando tutti gli
‘scarfoi’ (brattee della pannocchia di granoturco
o mais = le fòie dèl canù dè furmentù)
erano stati tolti e ammucchiati nelle stalle le pannocchie
andavano a colorare di oro i carretti diretti ai mulini, tra
cui quello di Navezze di Gussago (Brescia) sulla Seriosa “Serioletta”,
“Sargiöla”, che tornavano carichi di sacchi
gonfi di farina gialla.
I contadini avevano qualche soldo in tasca e la convinzione
di aver fatto con il mugnaio un giusto baratto per il lavoro
della macina. Nel ritorno incontravano altri carri al traino
dei cavalli diretti anch’essi verso la grande ruota
che girava senza posa spinta dalle acque della Serioletta,
partite dalla sorgente del “Gurt” a Navezze, che
cadevano con forza sulle pale. Il mulino era dei Reboldi:
Angelo, noto come “Anima Santa”, sposo di Brigida
Piardi (1872) figlia di Ernesto e di Angela Codenotti (bisnonni
di Achille Giovanni nato l’anno 1948, estensore di queste
semplici note); mulino passato, poi, al figlio di lui, ancora
Angelo, “Angel dè Boldi” fiöl de la
Brigida dei Piardi, che lo ebbe a condurre sino alla fine
degli anni sessanta del Novecento.
Poi arrivava la vendemmia e nelle cantine cominciava a ribollire
il mosto. D’inverno le stalle, riscaldate dal tiepido
alitare delle mucche, diventavano luogo d’incontro serale.
In quel calduccio le donne, chiacchieravano del più
e del meno, lavoravano con i ferri dai quali pendevano caldi
maglioni di lana oppure calzettoni lunghi e pesanti che le
più abili facevano, senza cuciture, con quattro ferri.
I bambini ascoltavano quel cicaleccio accoccolati sui mucchi
di ‘scarfoi’, mentre i mariti badavano agli animali.
Di brattee di granoturco erano fatti i pagliericci noti come
“paiù” (un sacco di tela riempito, si fa
per dire, di “scarfoi”) sopra il quale si stendeva
un lenzuolo di tela grezza, meglio di misto lino, ch’
èl ta sgrubiàa zo... le gambe!
La scuola elementare di poche aule e banchi di legno incisi
dai temperini degli alunni più discoli. Nella cartella
un quaderno a quadretti, un altro con le righe a due binari
(quelle dentro di cui ognuno doveva scrivere le vocali e le
consonanti minuscole e quelle che segnavano l’altezza
delle maiuscole), la carta assorbente sempre pronta per risucchiare
l’inchiostro caduto sulla pagina bianca. Non sempre
avevano l’astuccio dove mettere la matita o la cannuccia
in osso con il pennino. Stavano (stavamo, incluso colui che
scrive queste righe) molto attenti a non fare le macchie sul
foglio bianco, anche le orecchie agli angoli delle pagine
erano rigorosamente proibite. Le maestre di Gussago, antiche
o più giovani: Metilde Tosini [gussaghese, figlia di
Anna Piardi fu Andrea (1767) da Pezzaze] maritata Cherubini,
Ernesta Crescini, Camilla Peracchia, Teresa Venturelli, Lucia
Piovani Botti, Teresa Angeli, Maria Mina, Luigia Garosio,
Teresa Bezzi Alebardi (1920), Libera Botti figlia di Andrea
Giovanni e della succitata Piovani ed ancora Anna Maria Piardi
(1948) figlia del summenzionato Cesare detto Gino; così
i maestri: Sacerdote Don Angelo Piardi [Maestro, Ispettore
e Soprintendente scolastico dell’Ottocento, in Gussago],
Dolzanelli, il detto “Pipasèner”, Luscia
e Murro non volevano ed erano pronti a… infliggere reprimenda.
top
Gli alunni arrivavano a piedi, molti dalle
lontane cascine e qualcuno anche dalle circostanti colline,
come anche dalla Cascina Tesa sulla omonima collina gussaghese
ove vivevano anche i Piardi di Giovanni, “Giuanì
di Runcù”, negli anni ‘50/60 del sec. XX,
talvolta chiedevano passaggi ai carretti incontrati lungo
la via.
Verso la scuola c’era una certa reverenza, i bambini
ci andavano puliti e ordinati. Le mamme lavavano e rammendavano
i calzoncini rotti (braghìne cürte rote söl
cül, ma ben mèndade o col cül rifàt
deter), le camiciole lise (Blüsine, lize de nacc (deanti)
e söi gumbècc), le sottanine consunte, tramandati
di fratello in fratello e tra sorelle: sembravano più
belli dopo il paziente lavoro materno.
Nel desolante panorama delle condizioni di vita dei contadini
padani dell'Ottocento, i territori rivieraschi hanno sempre
rappresentato, se non un'eccezione, perlomeno un'attenuazione
dei fenomeni di indigenza e denutrizione. L'affermazione di
Magri (relativa al “loghini”), certamente enfatizzata,
non è comunque inattendibile: il colono legava la sua
fortuna al fazzoletto di terra in suo possesso, al suo piccolo
podere oggetto di sollecite cure. Il possesso di una casa
e un pezzo di terra, oltre ad essere occasione di riconoscimento
sociale, di dignità personale, passaporto irrinunciabile
per l'ingresso nella comunità rurale, consentiva diverse
possibilità di integrazione alimentare (gli ortaggi,
la spigolatura) che l'irriguo aveva quasi cancellato, così
come il Po con le sue golene rappresentava una vera miniera
dalla quale attingere, stagione per stagione, quelle proteine
necessarie alla dieta quotidiana, volta per volta sotto forma
di pesce, di selvaggina, di rane, di lumache e di trogne.
La trogna è il tubero dell'Apios americana, una pianta
della famiglia delle astragalee originaria degli Stati Uniti,
più precisamente della Virginia. (…). (www.italmensa.net
- Anno 2005. “Come e quando la trogna dalla Virginia
è arrivata sul Po? La patata di Pochaontas” di
Alberto Salarelli). (A)
Anche lo spazio agricolo che circondava la cascina è
oggi mutato. Allora era un paesaggio ricco, fatto di piccoli/medi
appezzamenti, solitamente circondati da siepi e piante, non
mancavano mai i filari di gelso e fossi e fontanili dalle
acque limpide. Oggi è cambiata la geometria, la delimitazione
dei campi, che sono ormai sempre più estesi e senza
ostacoli per le macchine agricole che, benchè abbiano
tolto bellezza al paesaggio, hanno anche sollevato da tanta
fatica e miseria le spalle della gente contadina. Pure l’agricoltura
di montagna è cambiata, anche se per lavorare su pendii
e dislivelli servono tuttora le braccia e la forza fisica,
quella forza delle abituate braccia chè le fa cantà
la ranza (che fan cantare la falce).
Tuttavia, dopo la negazione del vivere in campagna, concomitante
l'esodo rurale e il mito della città e dell'industria
(quando le cascine, le case coloniche rimasero vuote, il camino
fu nascosto dalla cucina in formica e sorsero anonime abitazioni
accanto alle vecchie dimore), negli ultimi anni è stata
fatta parzialmente marcia indietro. Su tutto è prevalso
l'orgoglio antico dalla gente di campagna e di montagna, conscia
della bellezza e della durezza del rapporto con la terra,
che si è finalmente scrollata di dosso l'atavico senso
di subalternità nei confronti della città e
dei suoi abitanti.
Da qui: ristrutturazioni oculate, recuperi, figli che decidono
di restare sulla terra da lavorare e negli anni più
recenti anche ripensamenti, da parte di alcuni, sul modo stesso
di produrre. C'è da sperare che tutto ciò continui
e tenda ad un’elevazione della qualità e ad influire
positivamente sul modo stesso di fare agricoltura, per recuperare
il plurimillenario rapporto fra uomo e terra. (A cura di Achille
Giovanni Piardi)
(A). Per un approfondimento sulla “trogna” e sulla
ricerca del tubero da parte degli abitanti di Villastrada,
compresi i Piardi, a differenza dei Dosolesi; la diatriba
tra essi: “Trognai - Stradaroi magna trogni!" contro
“Dusules magna fasoi!”, vai al sito www.italmensa.net
Qui, una breve sintesi di: Come e quando la trogna della Virginia
è arrivata sul Po – La patata di Pochaontas (a
cura di Alberto Salarelli). (…). Ma chi è il
trognaio? Un indigente, senza dubbio: la trogna non si raccoglie
per la prelibatezza del sapore, ma perché non si ha
altro per sfamarsi. Non trovandosi le salamelle sepolte in
golena, il trognaio fa di necessità virtù. Di
necessità e di esperienza: chi raccoglie trogne deve
avere una frequentazione assidua col fiume, deve conoscerne
i boschi, deve saggiarne i terreni. Si legga allora questo
passo di Giannetto Bongiovanni, dedicato al suo paese, Dosolo,
un borgo nell'estremo sud della provincia di Mantova, per
l'appunto affacciato sul Po.
<< La parte più caratteristica è però
il Castello. Lì vivono, nelle confuse memorie, i ricordi
dell'antico borgo munito che ebbe un ponte ed una torre a
difenderlo. E c'è un prato che ancora si chiama "Pallone"
e certi ruderi che tuttavia passano per le "prigioni".
Lì di padre in figlio le famiglie si tramandano, come
una tradizione, l'amore per la caccia e per la pesca, per
lo schioppo, la rete e la barca. Perché questa gente
ha nella vita come un sottinteso: il Po >>.
I trognai per antonomasia sono proprio i pescatori del Castello
di Dosolo, così celebri per questa loro attività
di raccoglitori che gli abitanti degli altri paesi rivieraschi
si riferivano ai dosolesi - in senso lato - chiamandoli trugnèr.
A dire il vero bisognerebbe aprire una parentesi che ci porta
su un terreno disseminato di insidie com'è quello che
coinvolge questioni di campanile, visto che si tratta di tirare
in ballo la secolare rivalità tra due paesi contermini.
Secondo Siro De Padova, infatti, scrittore e bibliotecario
nativo di Villastrada, piccolo centro che è frazione
di Dosolo e per questo soffre di un endemico sentore di inferiorità,
"i dosolesi, nostri eterni antagonisti, ci gridavano,
in segno di disprezzo: "Stradaroi magna trogni!".
Ma noi gridavamo più forte: «Dusules magna fasoi!».
Insomma trogne o fagioli, sempre di "mangiar cattivo"
si tratta: la necessità aguzza l'ingegno e la fame
tutto redime pur di placare l'appetito. Il trognaio dunque
si mette in marcia in inverno sul far del giorno armato di
vanga e cestino. Magari con una fetta di polenta in tasca
da far abbrustolire al momento della colazione. Il raggio
d'azione del trognaio è esteso: infatti non è
solo la golena di fronte a Dosolo ad essere territorio di
raccolta, i bottini più pingui si ottengono sulla sponda
di là. Ed ecco emergere l'importanza di essere barcaiolo
e di sapere come e dove muoversi tra le nebbie del grande
fiume. Sulla sponda emiliana, così come nel resto del
basso mantovano sono in pochi a raccogliere trogne, dunque
c'è più spazio d'azione. Cibo da poveretti,
da disperati, da emigranti.
<< Ma la maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran
gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta
inutilmente, per anni, sotto l'artiglio della miseria (…)
quei contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano
sull'altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le
quali, bollite nell'acqua, non si sostentano, ma riescono
a non morire durante l'inverno >>.
Così, (…), Edmondo De Amicis in veste di cronista
di viaggio su un piroscafo diretto in Sudamerica, testimonia
che la fama dei trognai passa i confini del piccolo mondo
padano dove peraltro il tubero era pietra di scandalo: si
racconta che Enrico Ferri, nume tutelare delle prime lotte
bracciantili nella bassa, si presentasse in tribunale per
difendere un gruppo di villici ribelli con un cesto di trogne
esclamando verso la giuria: "Potreste voi condannare
uomini che si nutrono da secoli quasi unicamente con questo
cibo?". E fu l'assoluzione con formula piena. Ma torniamo
all'opera: individuato il còrdul, cioè la radice,
si scavava e si recuperavano i preziosi tuberi. Dopodiché,
lasciamo la parola alla trognaia Bice Tortella:
<< Le raccoglievamo mettendole in sacchi che trasportavamo
con una carriola, perché le trogne erano sporche di
terriccio. Arrivate a casa, le stesse le lavavamo per bene
sotto al sambòt per pulirle dalla terra e nettarle.
Se le trogne andavano a fondo del secchio pieno d'acqua, le
stesse erano buone, altrimenti se galleggiavano dovevemo buttarle
via >>.
Dieci chili erano considerati un buon bottino di giornata
per un trognaio. Ora è tempo di portare la trogna in
cucina. Sul Po si conosce una sola preparazione, in tre fasi:
lessatura, pelatura, pappatura. I puristi nemmeno le salano
non volendo edulcorare il sapore dolce, caratteristico del
tubero. Gli americani - invece - conoscono una serie di preparazioni
ben più ampia e variata: trogne affettate e arrostite,
trogne al forno in carta stagnola (baked groundnut), purè
di trogne, farina di trogne da aggiungere al brodo o al semolino.
Il secondo dopoguerra ha visto progressivamente
scomparire, insieme al bosco ceduo della golena di Po, anche
le trogne che non possono crescere tra le file di pioppi inondate
di anticrittogamici. Qualche nostalgico ancora, un po' accanito
a dire il vero, si ostina a cercare nelle piccole macchie
superstiti di vegetazione spontanea qualche pianta di Apios.
Le trogne oggi sono un cibo da appassionati, spesso alla ricerca
di un sapore della gioventù che – ahi loro -
fu. Si diceva che la trogna nell'Ottocento perse la sua partita
nei confronti della patata a motivo dello scarso rendimento.
In termini quantitativi il discorso, certamente, non fa una
grinza: la patata rende più della trogna eppure la
trogna ha un contenuto proteico fino a tre volte maggiore.
Con le moderne tecniche di selezione genetica è possibile
produrre trogne che conciliano le caratteristiche alimentari
intrinseche della pianta con un raccolto soddisfacente. Due
ricercatori americani, W. J. Blackmon e B. D. Reynolds, recentemente
hanno dimostrato come sia possibile ottenere oltre tre chili
di tuberi per ogni pianta all'anno. La stessa FAO definisce
la trogna come "an important Indian food and potato substitute".
Ed allora? Vuol dire che forse vedremo presto sulle rive del
Po ricomparire i trognai insieme agli agronomi in camice bianco?
No, credo proprio di no. Ma chissà che una qualche
osteria verace non ne proponga l'assaggio nel menù
tipico, magari dopo aver trapiantato il tubero nell'orto di
casa. Gli americani, ormai, coltivano l'Apios per le sue qualità
estetiche, per creare pergolati o per ricoprire squallide
pareti di cemento. Ma noi non ci rassegnamo e, in preda a
lucida follia, immaginiamo un piatto esotico e nostrano allo
stesso tempo: siluro danubiano alla brace con contorno di
Indian potatoes al burro. Voilà, che sciccherìa!
E buon appetito. [(A cura di Alberto Salarelli in: www.italmensa.net).
Alberto Salarelli è docente di Sistemi di elaborazione
delle informazioni presso il Dipartimento dei Beni Culturali
e dello Spettacolo - Sezione Beni Librari dell'Università
di Parma]
Mappa antica (sec. XVIII) che rappresenta la confluenza dell'Oglio
nel Po
con l'abitato di CIZZOLO (Zizzolo), quello di Dosolo e, di
là del fiume,
Torricella (Toricella) e Luzzara (Luzara). (Arch. di Stato.
Mn, A.G.,
Mappe e disegni, G. 90-3). In C. Parmigiani, "Fra Po
e Zara". Edit. Sometti. MN.
CIZZOLO.
<< In epoca imprecisata il Po, che in antico doveva
scorrere dal lato di Cizzolo (****), cominciò a puntare
verso la sponda opposta. Iniziò a questo punto una
disperata e costosissima lotta dell'uomo contro la vorace
erosione del fiume, lotta fatta di continui arretramenti del
rilevato dell'argine. In una inedita ed interessantissima
mappa del '8 ottobre 1717, tracciata proprio in occasione
di una rotta alluvionale, è ben percepibile dai tronconi
di argine che si protendevano verso il fiume, la molteplicità
dei tentativi di ricucitura e di modifica apportati già
in precedenza al fronte di contenimento delle acque. (...).
Dalla stessa mappa del 1717 si rileva la presenza al cantone
dei Rami anche di un porto-traghetto che collegava la sponda
di Torricella con Cizzolo. (Presso Arch. Stato MN, Magistr.
Camerale antico, ingegneri camerali, busta 13, anno 1717)
(****) . In epoca altomedievale il Po doveva scorrere addirittura
oltre Cizzolo, dato che questa località è dichiarata
dai documenti come appartenente all'insula Suzarie, affermazione
avvalorata dal fatto che la chiesa di Cizzolo è da
sempre subordinata a quella di Suzzara. (Carlo Parmigiani.
in FRA PO e ZARA - Storia del territorio e delle corti di
Motteggiana. Editoriale Sometti. Mantova, febbraio 2005)
Per ulteriori notizie inerenti i PIARDI di CIZZOLO e i “Loghini”
di questa località mantovana del Viadanese vedi qui,
in questa sezione LUOGHI, “”VITA DA CONTADINI:
i PIARDI in Valtrompia, in Franciacorta, (...) e nel Mantovano”
cliccando su VIADANA, DOSOLO,
PORTIOLO
Golena e Argine maestro di Po mantovano,
terre dei Piardi.
Golena.
L'edilizia
rurale accompagna tutto il viaggio, con edifici di notevole
pregio.
In molti casi, soprattutto in golena, va registrato con tristezza
l'abbandono di fabbricati rurali. Indubbiamente, si tratta
di un oneroso spreco di risorse.
Il recupero e l'abbandono dell'edilizia rurale seguono tutto
l'itinerario.
L’argine maestro.
Quest'opera
permette l'esistenza della pianura padana, così com'è
oggi. Senza l'argine, il territorio sarebbe organizzato diversamente.
L'argine e la bonifica costituiscono la premessa dell'organizzazione
civile, dell'insediamento umano nelle sue attuali forme. Sull’argine
che va da Pomponesco a: Correggioverde, Villastrada, Cavallara,
Cizzolo e San Matteo delle Chiaviche sino al ponte di barche
di TorreD’Oglio e quindi per Scorzarolo (ove l’Oglio
va nel grande fiume), Borgoforte e giu sino a Governalo (ove
il Mincio s’immmette nel Po) si può far scivolare
la bicicletta.
Da: VERDI TERRE D'ACQUA, scoprire e vivere l'agriturismo
nelle campagne mantovane. www.agriturismomantova.it
BRESCELLO, in riva destra di Po, dirimpettaia di Viadana.
Antica pianta di città fortificata; realizzazione di
Terzo Terzi anno 1552. (IN "Opere scelte di Anselmo Mori
- Note storiche intorno a Brescello, Boretto, Gualtieri, Guastalla".
Edizioni Diabasis, anno 1997).
Mulini galleggianti sul Po tra Boretto e Gualtieri, fine Ottocento.
(Stampa fotografica su carta albuminata, collezione privata.
In "Le ruote del pane". Edit. Sometti - MN). Le
citate località fluviali, poste in riva sud, sono dirimpettaie
di Viadana, Pomponesco e Dosolo, in riva nord (o sinistra),
luoghi di antica dimora dei Piardi mantovani. I mulini sono
ancorati alla piarda fluviale per mezzo di lunghe catene.
Mulino fluviale e natanti sul PO, anni 20 del secolo XX.
(Archivio del Centro Etnografico Ferrarese. In "Le ruote
del pane". Edit. Sometti - MN)
Mulino galleggiante sul Po nei pressi di Pontelagoscuro. (Illustr.
di F. Corni e L. Confortini, 2003. In "Le ruote del pane".
Edit. Sometti - MN)
Di grande fede e monito la scritta a caratteri
cubitali posta in facciata: INRI - DIO TI SALVI. La vita dei
mulini galleggianti (o natanti), ancorati alla riva (sulla
Piarda) per mezzo di lunghe catene (anche 60 metri), e quella
degli addetti è sempre in pericolo imminente a causa
delle improvvise, travolgenti, piene o di divampanti incendi.
(A cura di Achille Giovanni Piardi)
Mulini sul PO a Melara, anni 20 del secolo XX; si noti l'invocazione
"Dio ti salvi".
(Collezione privata. In "Le ruote del pane". Edit.
Sometti -MN).
Il mulino natante è un tipico elemento
del paesaggio fluviale del Po. I mulini sono ancorati in punti
in cui la presenza di isole in alveo determina un restringimento
della sua sezione, con conseguente aumento della velocità
dell’acqua. Il mulino ha infatti bisogno di un’adeguata
spinta della corrente per la rotazione delle pale, che trasmettono
poi il movimento agli organi di macinazione. Un’altra
condizione è che il mulino natante sia facilmente raggiungibile
dalla sponda per trasportarvi i sacchi di grano e, in senso
inverso, per riportare a riva la farina macinata. In genere
il mulino è ancorato su un froldo, ovvero in un punto
in cui il fiume è in aderenza all’argine maestro,
o comunque in un tratto in erosione, detto nel linguaggio
del Po 'piarda'. (Carlo Parmigiani. Fra Po e Zara –
Storia del territorio e delle corti di Motteggiana. Editoriale
Sometti – Mantova. Mantova, febbraio 2005)
<< Ogni mulino del Po recava di solito il nome di un
santo: S. Giuseppe, S. Marco, S. Giacomo, S. Alessandro ...
. In questo modo si poneva un opificio facilmente soggetto
ai rischi di incendio e alle calamità naturali sotto
la divina protezione. Questa era cercata anche con l'apposizione
di scritte dipinte quali l'I.N.R.I. e l'invocazione
DIO TI SALVI. Protettori dei mugnai erano
Sant'Antonio Abate (S. Antonio del porcellino, 17 gennaio)
e Santa Caterina d'Alessandria (festa il 25 novembre). Il
culto popolare procede dalla tradizione secondo cui la santa
sarebbe sfuggita miracolosamente al supplizio della ruota.
Di conseguenza venne adottata come protettrice da artigiani
che usavano ruote nel loro lavoro come carradori e per l'appunto
mugnai >>. (R.Roda e Gabriele Setti, "Mugnai, Mulini
e religiosità popolare" in "Le ruote del
pane". Edit. Sometti).
I mulini sono ancorati alla piarda fluviale per mezzo di lunghe
catene.
La vita dei mulini galleggianti (o natanti), ancorati alla
riva (sulla Piarda) per mezzo di catene (anche 60 metri),
e quella degli addetti è sempre in pericolo imminente
a causa delle improvvise, travolgenti, piene o di divampanti
incendi. (A cura di Achille Giovanni Piardi)
Piarda.
Riccardo Bacchelli (1938 pubblicazione del romanzo
"Mulino del Po”). <<... Scacerni aveva fatte
da tempo le opportune ricognizioni lungo le rive e il corso
del fiume, per scegliere la piarda, ossia
il luogo dove si fissava a lavorare un mulino. (ndr.Lazzaro
Scacerni). (...).
Piardóne, s.m. Sponda di fiume a cui
sono ormeggiati due o più mulini galleggianti.
Bacchelli, Davvero egli (Ndr. Lazzaro Scacerni) vedeva il
giorno di far fare un secondo mulino, da appaiare col primo:
dopo di che la piarda avrebbe cominciato a chiamarsi
piardone.
Piardone = Accrescitivo masch. di piarda>>.
(In, Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana,
Volume XIII, pagina 305 - terza colonna).
La piarda, una
piarda, le piarde; la piarde et une piarde = I Piardi
La Piarde (francese) da http://www.plumesetnature.com/piarde
2.htm.
(ancien lieu d'extraction de la tourbe)
Documento del 1455, in lingua francese; si parla di "la
piarde", "une piarde" come di una "équipe",
"une tournée" di lavoro in miniera. (Comptes
d'explotation des mines de Jacques Coeur (grand argentier
de Charles VII. (Relèvement des équipes d'ouvriers
anné 1455))
da http://www.pillien.org/Paleographie/cours7_2.html
prima foto: Piarda comunale a Berra
seconda foto: Riva del fiume Po di Serravalle a Po; la piarda
da www.serravalleweb.com
Miniera MERALDINO della Val di Scalve (Schilpario, Bergamo),
squadra di operai negli anni 40 del sec. XX.
'La scansione del tempo e dell'orario di lavoro è
segnato dalla quantità
di olio della lampada usata di minatori: 1 lùm
= una piarda'.
Vedi il mestiere
del minatore e anche
http://www.scalve.it/museoschi/12MINIERA.htm
La Corte, le Corti, l'Aia, il Cortile;
la Curt o l'Era
Luogo dei giochi e degli amori, delle passioni e delle speranze
future; luogo dove cresceva la vita.
Come in questo altorilievo: ove si leggono
le iniziali e la classe di leva del capo famiglia poste sull'architrave
della porta, mentre sull'uscio di casa dure bambine, di diversa
età, giocano a nascondino, infatti, il dito indice
della mano destra posto innazi la narice indica agli altri
personaggi del movimentato cortile (Curt o Era ) di far silenzio,
non segnalare la loro presenza a colui che regge il gioco,
la "Tana". A sinistra, invece, animali da cortile
(Era) e seduti su di una panca, addossata al muro di casa,
un ragazzo che accudisce una piccola; significativamente belli,
quasi veri, alcuni finimenti del cavallo (o mulo), quadrupede
assai utile nei lavori dei campi e sui monti quale animale
da soma od anche da tiro o da trasporto se posto alle stanghe
di un carretto.
(Foto di Carla Piardi. Daniele Bertussi da Pezzaze. Scultura:
"La Curt" o "l'Era". Lavoro eseguito a
mano, su legno di noce, ricordando l'aia dei suoi genitori
ed il luogo in cui l'autore crebbe. Pezzaze, 2011)
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