Amedeo
Battista PIARDI dei “Sgalmer”
da BRESCIAOGGI. Mercoledì 11 Agosto 2004 cronaca Pagina
7.
- A CALTAGIRONE . Nè un cippo nè una lapide ricordano
l’eccidio.
Amedeo Battista PIARDI dei “Sgalmer”.
La tomba che non c’è.
Sono tornati a casa i resti di soldati caduti in Albania, in
Grecia, in Russia. Ma i resti dei nove soldati bresciani caduti
in terra italiana, a Santo Pietro di Caltagirone, non sono mai
stati restituiti alle loro famiglie. Peggio: nessuno sembra
conoscere con precisione il luogo in cui quei corpi sono stati
sepolti. Le famiglie non hanno mai avuto una tomba su cui deporre
un fiore. Eppure gli ultimi superstiti di quella generazione
che se ne sta andando conservano solo questo desiderio: restituire
alle tombe familiari i resti di quei poveri ragazzi.
La ricerca - come sempre in questi casi - non si annuncia semplice.
A Caltagirone nessuno apparentemente sa con precisione dove
avvenne la sepoltura. La ricerca nell’archivio cimiteriale
è appena cominciata, ma non promette granchè.
Un impiegato della cittadina di Caltagirone ripete al telefono
quello che ha già annunciato il parroco di Santo Pietro:
«In paese non c’è nessuna lapide, nessun
cippo che ricordi il luogo della strage o quello della sepoltura.
In paese s’era persa memoria di quella tragedia».
Anche il fante superstite, Virginio De Roit, sulla sepoltura
non è preciso: «Mentre sparavano sui miei compagni
io sono scappato. Poi sono rimasto nascosto per molti giorni,
non sono più tornato là».
Qualche indicazione in più la offre il secondo testimone
ancora vivente della strage: Giacomo Lo Nigro, un contadino
della zona, che allora aveva 17 anni e dal folto di un aranceto
assistette alla scena. In un siciliano stretto Lo Nigro spiega:
«Dell’aeroporto non c’è quasi più
nulla: solo il bunker e qualche paraschegge che riparava gli
aerei. Al posto della pista di atterraggio ci sono i campi.
Il luogo della strage oggi è un vigneto». E i corpi?:
«Dopo i primi colpi sono scappato, so che li portarono
via, verso Santo Pietro». Ma nella borgata non c’è
un cimitero. Gli americani avevano con sè un lanciafiamme:
potrebbero aver bruciato i corpi. Gli orrori della guerra ammettevano
anche questo. Pietà e verità, unite, reclamano
ora di far luce anche sull’esito dell’eccidio.
massimo tedeschi
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da BRESCIAOGGI. Mercoledì 11 Agosto 2004 cronaca
Pagina 7
Uccisi dagli alleati, a sangue freddo.
Nove soldati bresciani furono fucilati in Sicilia nel 1943.
Anche se si erano già arresi.
A cura di Massimo Tedeschi.
All’archivio storico dell’Esercito la loro morte
non ha lasciato traccia. L’Onorcaduti, l’organismo
della Difesa che si occupa di caduti in guerra, qualifica
cinque di loro come dispersi in date differenti. Di altri
quattro, per ora, gli archivi non restituiscono notizie.
I cippi e i monumenti ai caduti disseminati nei loro paesi
li collocano, a seconda dei casi, fra i defunti o fra i mai
ritornati. Lo Stato non ha riconosciuto una lira a vedove
e genitori affranti per la loro scomparsa. Eppure, nelle loro
famiglie, si tramandano ancora voci flebili, memorie sempre
più sbiadite, di quella tragedia: «Sono stati
decimati», ricorda oggi l’anziana sorella di uno
di loro, che al ricordo ancora si commuove.
Eppure «decimati» è un eufemismo. Nove
soldati bresciani, giovani che allora avevano fra i 23 e i
30 anni, il 13 luglio del 1943 sono stati vittima di un eccidio.
Una strage a sangue freddo perpetrata dalle truppe alleate
da poco sbarcate in Sicilia che passarono per le armi a Caltagirone,
dopo averli derubati di ogni avere, 29 soldati italiani e
4 tedeschi già arresi. Una strage cancellata dai libri
di storia che oggi riaffiora per la tenacia dell’unico
superstite: Virginio Da Roit, vicentino 92enne di Santa Maria
di Camisano, falegname che nel luglio ’43, mentre difendeva
con i commilitoni l’aeroporto di Santo Pietro a Caltagirone,
fu catturato dagli alleati e si salvò per miracolo.
«Dopo essere tornato a casa nel luglio ’45 - ricorda
oggi - è toccato a me incontrare fratelli, genitori
in cui riconoscevo gli stessi lineamenti dei miei compagni
caduti, e raccontare come li avevo visti cadere. Io allargavo
le braccia, loro capivano che non avrebbero più rivisto
i loro cari».
De Roit provò, allora, a parlarne anche al suo distretto
militare: «Lascia stare - mi dicevano - adesso ci sono
i partigiani, comandano gli americani». E così
l’eccidio di Santo Pietro è stato affidato solo
al lutto privato di famiglie di Brescia, di Concesio, di Pezzaze,
di Carpendolo, di Darfo, di Iseo e di altre zone d’Italia
a cui De Roit aveva portato la ferale notizia.
A sessant’anni di distanza da quegli avvenimenti il
velo sulle pagine tragiche che accompagnarono lo sbarco in
Sicilia è stato squarciato dal libro «Arrivano
i nostri» di Alfio Caruso. Le sue pagine hanno rivelato
la strage di Acate (consumata il 14 luglio ’43, a poche
decine di chilometri da Caltagirone) ma soprattutto hanno
dato la stura ai ricordi, e la voce ostinata di De Roit ha
trovato finalmente ascolto sul Corriere della Sera.
Il falegname vicentino era inquadrato nel 153° battaglione
mitraglieri: «C’erano tre compagnie: la prima
a Catania, la seconda all’aeroporto di Gela che fu investita
dallo sbarco, e la nostra che difendeva l’aeroporto
di Santo Pietro». Una pista in terra battuta realizzata
un paio d’anni prima per assicurare una rampa di lancio
ai bombardieri tedeschi diretti a Malta. La compagnia aveva
trascorso un anno e mezzo relativamente tranquillo fino a
quando un bombardamento, il 7 luglio, aveva annunciato l’imminente
sbarco. Nella notte fra il 12 e il 13 luglio alla compagnia
di De Roit, folta di veneti e di bresciani, arriva l’ordine
precipitoso di ripiegare su Santo Pietro, la vicina borgata
creata dal fascismo. Nel buio gli uomini smobilitano per raggiungere
i carri armati della panzerdivision "Goering", anch’essi
in rotta, ma su di loro piomba una colonna - probabilmente
americana - che dopo uno scontro a fuoco li disarma. I fantaccini
partiti da Brescia non si trovano di fronte i ragazzoni sorridenti
che oggi vediamo nei cinegiornali, ma soldati che sembrano
usciti dai manifesti della propaganda fascista firmati da
Boccasile: «Ci tolsero portafogli, collanine, ciondoli,
orologi. Ci rubarono scarpe e abiti. Ci fecero camminare a
piedi nudi fra i rovi, e ci misero in fila per due. Un nero
dalla faccia brutta - ricorda De Roit - con una parabellum
sparò al petto ai primi due, che erano tedeschi. Poi
ancora due tedeschi. Quando ho visto cadere anche il caporale
Luigi Ghiroldi di Darfo e il mio compaesano Aldo Capitanio
ho urlato: "Tosi, scapèmo!».
De Roit, il suo compaesano Silvio Quaiotto e l’anconetano
Elio Bergamo si buttano nel vicino fosso Ficuzza. De Roit
e Quaiotto si salvano annaspando nell’acqua, Bergamo
viene falciato dalle raffiche. Intanto le mitragliette americane
compiono l’eccidio. Sotto i loro colpi cade Battista
Piardi di Pezzaze: aveva 25 anni e l’anno prima aveva
sposato Anna Filippi, al santuario del Pasubio. Cade Leone
Pontara di Concesio, 23 anni, che aveva già perso il
fratello Giovanni in Russia. A loro, oggi, è dedicata
una via nel paese natale. Cade Mario Zani, contadino di Iseo.
Cade Attilio Bonariva di Lozio: aveva 3 fratelli e 4 sorelle.
Di lui parlano ancora la lapide ai caduti del paese e il nipote
Giacomo: «Ero un bambino, mi ricordo l’ultima
volta che venne in licenza. Me lo vedo davanti che ci saluta
con la mano, poi venne un suo amico di Vicenza a dirci che
era m orto». Cadono anche Santo Monteverdi di Carpenedolo,
Gottardo Toninelli e Pietro Vaccari di Brescia, Celestino
Brescianini di Pertica Alta e altri loro giovani commilitoni.
De Roit e Quaiotto scappano, sconvolti. Il falegname si riprenderà.
Il suo amico non più. Mentre gli alleati risalgono
l’Italia liberandola, De Roit resta in Sicilia: la famiglia
Verdone, i fratelli Spadaro e il feudo Cucuzza sono i suoi
rifugi. Finita la guerra torna a casa, e si accorge che non
c’è spazio per la memoria di quella strage a
cui è sopravvissuto.
Adesso che finalmente ha trovato orecchie che l’ascoltino,
il superstite considerava adempiuto il suo ultimo dovere.
Adesso non c’è più bisogno di distinguere
fra caduti buoni e cattivi, si può riconoscere che
ogni guerra è sporca, si possono restituire al ricordo
pubblico quei morti dimenticati e alle pietà delle
famiglie quei resti che - ancora - non hanno trovato sepoltura
in terra di pace.
massimo tedeschi
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da BRESCIAOGGI Mercoledì 11 Agosto 2004.
«Lo zio fu richiamato, in lui
un triste presentimento».
In famiglia la morte di Mario Zani era finora associata allo
sbarco in Sicilia, ma senza notizie precise.
L'ultima sua lettera veniva dalla Sicilia. Laggiù riposa
Mario Zani, nato a Clusane d'Iseo il 29 novembre 1916, soldato
di fanteria ufficialmente disperso dal luglio '43. Dove sia
stato sepolto, i suoi parenti non l'hanno mai saputo. Così
come non hanno mai saputo come sia morto.
Una ferita che si riapre adesso con le rivelazioni del "Corriere
della Sera": Mario vittima della strage dimenticata di
Santo Pietro, ammazzato a bruciapelo dagli americani dopo
essere stato disarmato e fatto prigioniero. Una verità
ancora più tragica e amara di quel che si temeva.
Angelo Zani, uno dei nipoti di Mario, residente a Timoline
di Cortefranca, quasi non vuol crederci. L'emozione è
forte, poi vince la voglia di riavere indietro una pagina
mancante della storia di famiglia. Dice: «Mi vien la
pelle d'oca anche solo a pensarci: ma è sempre meglio
conoscere la verità. Ricordo che in casa, quando si
parlava dello z io Mario, ci si limitava a far cenno alle
spiagge della Sicilia e allo sbarco degli americani. Oltre
non ci si spingeva, per mancanza di notizie certe».
C'era stato, per la verità, a guerra finita, il tentativo
del fratello Giacomo di convincere i familiari ad andarlo
a cercare. Ma la Sicilia a quei tempi sembrava all'altro capo
del mondo e non se ne fece niente.
Mario era l'ultimo dei quattro figli avuti da Battista e Angelina
Zani, morti di spagnola nel 1917. E così di Giovanni,
Piero, il succitato Giacomo e Mario, appunto, si prese cura
il clan familiare, l'ultima grande famiglia patriarcale di
contadini senza terra che si ricordi nel comprensorio.
Nel '37 Mario va per 18 mesi a naja nel Vicentino. Nello stesso
anno gli altri tre figli di Battista e Angelina si trasferiscono
a Timoline di Cortefranca, ma continuano a vivere in regime
di comunione dei beni a mani riunite, come si dice, con la
casa-madre di Clusane (significa che se la grandine distrugge
il vigneto a Timoline, a Timoline si beve il vino di Clusane).
Quando scoppia la guerra, uno alla volta i giovani degli Zani
partono per il fronte, chi in Grecia, chi in Africa, chi in
Russia, chi in Sardegna. Mario, che non è sposato,
è richiamato nel '43. «Non voleva andare, se
la sentiva che non ce l'avrebbe fatta - racconta il nipote
Angelo -. Lo convinsero i parenti con l a spauracchio dei
carabinieri che sarebbero venuti a cercarlo».
Mario sarà l'unico degli Zani a non tornare. "Disperso"
sta scritto sotto la sua foto collocata nel cimitero di Timoline.
Adesso c'è qualche elemento in più per cercarlo.
Giuseppe Zani
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da BRESCIAOGGI. Mercoledì 11 Agosto 2004 cronaca
Pagina 7 - LO STORICO. Alfio Caruso.
«Indiziati di
quella carneficina sono gli americani di Patton».
Gli archivi militari italiani sono colmi di atrocità
inflitte e subite dai nostri soldati durante l’ultima
guerra. L’oblìo più o meno diplomatico
ha velato molte di quelle scomode verità, come le vicende
dei nostri soldati evirati dai maori neozelandesi in Nordafrica,
episodio che suscitò sdegnate proteste fra le cancellerie
belligeranti.
Delle stragi in Sicilia di cui furono vittima i soldati italiani,
invece, nessuna traccia ufficiale. Gli episodi si riaffacciano
ora nel libro «Arrivano i nostri» edito da Longanesi
di Alfio Caruso, il giornalista-storico già autore
di «Tutti i vivi all’assalto» dedicato all’epopea
degli alpini in Russia. Caruso ha svelato i contorni della
strage di Acate, dove gli americani passarono per le armi
73 militari italiani e tedeschi inermi. E ha un’idea
precisa su quella di Santo Pietro, emersa poco dopo la pubblicazione
del suo libro.
«Caltagirone - sottolinea Caruso - fu liberata dai canadesi
il 15 luglio, otto giorni dopo lo sbarco, ma il paese era
già sgombro». Fulcro degli scontri era stata,
due giorni prima, la borgata di Santo Pietro: «Lì
i tedeschi avevano realizzato una pista in terra battuta per
i loro Stukas che bombardavano Malta. In un ex convento avevano
creato un convalescenziario e un ospedale da campo. Il giorno
della strage in zona stava ritirandosi la panzerdivision Goering,
formata da 160 "tigre" ma disastrata dalla battaglia
di Gela dell’11 luglio».
E la strage? «La testimonianza di De Roit parla di un
nero e fa pensare agli americani. Del resto i maori neozelandesi,
come i canadesi e gli inglesi di Montgomery, quel giorno erano
impegnati a decine di chilometri di distanza. L’ipotesi
più probabile è che l’azione sia stata
condotta da qualche reparto mobile della 45ª divisione
dell’VIII armata del generale Patton».
Caruso dà conto anche di una voce popolare: «Nei
giorni precedenti lo sbarco vennero effettuati molti lanci
di paracadutisti americani e inglesi: alcuni furono fermati
dalla milizia volontaria che li fucilava seduta stante. Si
dice che alcuni superstiti, dopo aver visto quelle scene,
riunitisi ai compagni istigarono alcune ritorsioni. Ma, lo
ripeto, è una voce non documentata».
A Santo Pietro si conoscono le vittime ma non i carnefici.
Il contrario di ciò che succede per la strage di Acate,
aeroporto militare del Ragusano, teatro di un altro eccidio
d i italiani e tedeschi, senza nome: «In quel caso -
ricorda Caruso - è aperto un processo presso la procura
militare di Padova e c’è stato un processo americano.
I soldati che dovevano prendere il controllo dell’aeroporto
si trovarono di fronte una resistenza inattesa, anche da parte
di alcuni giovani in borghese: probabilmente militari che
avevano già gettato la divisa ma furono sorpresi dall’arrivo
degli americani. Trentasei fra italiani e tedeschi furono
fucilati sul posto dalla compagnia C del 180° reggimento
dell’armata di Patton, comandata dal capitano John Compton.
Altri 37 furono affidati al sergente Horacho West che, durante
il trasferimento al comando per interrogarli, li trucidò».
I due graduati furono processati: Compton se la cavò,
sostenendo di aver ucciso franchi tiratori e di aver eseguito
in fondo un ordine di Patton di non fare prigionieri. West
si difese sostenendo che era sotto l’effetto dell’efedrina,
uno stimolante somministrato ai soldati Usa prima degli assalti.
Fu condannato alla pena di morte, poi commutata in ergastolo.
L’esercito Usa si ricordò di lui alla vigilia
dello sbarco in Normandia, e West partì «volontario»
verso Omaha Beach. Oggi il suo nome figura fra quelli degli
eroi caduti nel D-day.
m.te.
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da Bresciaoggi >. Brescia, 13 agosto 2004.
Così nel 1946 Virginio De Roit raccontò al parroco
di Pezzaze l’eccidio di Santo Pietro e la fine di Battista
Piardi.
«I colpi. E il sangue spruzzava»
Ora che il velo del silenzio è caduto,
ora che le cautele diplomatiche non hanno più ragion
d’essere, i crimini di guerra compiuti dalle truppe
alleate dopo lo sbarco in Sicilia, il 10 luglio 1943, non
sono più un tabù.
Su questi episodi di sangue, lo ha rivelato Gianluca Di Feo
sul Corriere della Sera, in America esistono numerosi studi
storici e giuridici. Ci sono esperti di diritto militare che
hanno messo a confronto le sentenze del 1943 per la strage
dell’aeroporto di Biscari (oggi Acate, in Sicilia) con
gli episodi di Guantanamo e di Abu Grahib. Da noi solo ora
si comincia a parlare delle stragi compiute dei militari alleati
nella settimana seguita allo sbarco, quando americani, inglesi
e canadesi si trovarono a fronteggiare una resistenza più
agguerrita del previsto, e fecero ricorso anche alla brutalità,
alle esecuzioni sommarie.
Epicentro delle stragi fu la zona sud-orientale dell’isola,
a cavallo fra le province di Catania e Ragusa, vicina al parallelo
di Tunisi. Di alcuni di questi episodi si sta occupando la
procura militare di Padova: la fucilazione dei 73 militari
arresisi dopo una strenua resistenza all’aeroporto di
Biscari, ma anche l’eccidio di otto civili consumato
a Piano Stella dove è sopravvissuto un testimone, Giuseppe
Ciriacono allora 13enne, oggi carabiniere in pensione.
Ma in quel «triangolo della morte» s’è
consumato certamente un terzo eccidio: quello dell’aeroporto
di Santo Pietro, borgata in comune di Caltagirone. Lì,
come ha potuto appurare finora Bresciaoggi , è caduta
una ventina di militari fra cui sette bresciani (Luigi Ghiroldi,
Attilio Bonariva, Leone Pontara, Battista Piardi, Gottardo
Toninelli, Pietro Vaccari e Mario Zani) mentre altri due sono
sopravvissuti miracolosamente (Santo Monteverdi di Carpenedolo
e Celestino Brescianini di Pertica Alta).
Anche quella strage ha lasciato due testimoni tuttora viventi:
Giacomo Lo Nigro, contadino siciliano, e Virginio De Roit,
militare vicentino scampato alle raffiche degli americani.
Nei giorni scorsi abbiamo sentito entrambi. De Roit, 92enne,
ci ha raccontato la sua verità con la voce rotta dall’emozione.
Appunti scritti l’hanno aiutato a rintracciare il filo
dei ricordi, non a colmare tutte le lacune della memoria.
Per questo riproponiamo, qui accanto, un documento eccezionale,
una cronaca minuziosa e quasi coeva della strage: è
la lettera con cui De Roit, allora 34enne, raccontò
al parroco di Pezzaze la fine del suo amico Battista Piardi,
originario di Stravignino. (**)
La lettera, conservata dalla famiglia Piardi «Sgalmer»,
ci è stata messa a disposizione dalla cortesia di Achille
Giovanni Piardi, lo storico di famiglia. Fra i tanti dettagli,
una ricorrenza fa rabbrividire. La lettera è datata
13 agosto 1946: la stessa data di oggi, 58 anni fa. C’è
voluto più di mezzo secolo perchè una pagina
terribile della nostra storia uscisse dal buio degli archivi
e venisse proclamata in tutta la sua tragica verità.
Massimo Tedeschi, Bresciaoggi. Brescia, 13 agosto 2004.
(**). << “S. Maria di Camisano lì 13/8/1946.
Molto Reverendo Parroco,
riferendomi alla mia precedente nota n. 8 del 4 agosto u.
sc. indirizzata alla famiglia Piardi Battista Pezzaze del
mio compagno, ed avendo avuto dalla stessa famiglia l’assicurazione
che il loro caro non è tornato, ritorno che io stesso
non potevo sperare, ho il dolore di comunicarle, con preghiera
di rendere consapevole la famiglia il fatto seguente:
All’alba del 14 luglio 1943 fummo fatti prigionieri
dagli inglesi, quindi spogliati completamente levandoci ogni
oggetto di valore fummo con- (testo mancante nell’originale
deteriorato) di G. Pietro Caltagirone, sotto gli alberi d’olivo.
Dal gruppo di circa quaranta furono a decimazione messi a
parte sei della nostra compagnia i quali presero in consegna
gli arnesi per scavare una lunga fossa. Nel frattempo ci affiancarono
due a due. All’estremità destra c’erano
i tedeschi. Dopo qualche atteggiamento del corpo di esecuzione
(circa otto) incominciò il fuoco da parte di un soldataccio
dall’aspetto terrificante. Ebbi l’esatta sensazione
dei colpi che foravano i primi petti: il sangue spruzzava.
Quando vidi cadere un mio carissimo paesano fui preso da una
sensazione quasi divina, apparve alla mia mente la S. Vergine
di Monte Berico e il vivo ricordo dei miei cari. Fu un momento,
un istante; gridai terrorizzato. Scappiamo, scappiamo. Presi
a tutta corsa la fuga seguito da altri due di cui uno del
mio paese e mi rifugiai in un fossato coperto di alti arbusti.
Le ricerche furono istantanee, scrupolose e per scovarci appiccicarono
il fuoco a quel fitto nascondiglio. Nel frattempo fu ucciso
uno degli altri due (questo era di Ancona). In un giusto momento
quando l’agguato era altrove uscimmo noi due soli dal
nascondiglio incendiato, rifugiandoci percorrendo un basso
vigneto in un altro corso d’acqua immergendoci fino
al collo. Le lunghe ore passarono dall’alba al tramonto.
Al crepuscolo ci avviammo ad una cascina disabitata. Lì
una vecchia coperta ci servì per coprirci un poco il
corpo sanguinante. In seguito andai a finire in una grande
fattoria dove rimasi fino al giorno del mio ritorno.
Ora a parer mio ritengo che tutti i miei compagni rimasti
sul posto ebbero l’esecuzione ad eccezione dei decimati
che furono dopo le operazioni di sepoltura inviati in campi
di concentramento. E’ da ritenersi quindi che questi
miei compagni dei quali ho già avuto notizie di non
avvenuto ritorno siano morti. Resta solo il dubbio che qualcuno
per Mano divina fosse rimasto fuori o fuggito, e quindi non
posso accertarne matematicamente la morte avvenuta.
Mi fu notificato dopo due mesi circa che i resti delle salme
poiché queste furono bruciate vennero deposte nel cimitero
di Caltagirone.
Nel luogo di esecuzione posi una croce.
Con mio vivo dolore porgo sentiti ringraziamenti.
Virginio De Roit
P.S.: Questo è però, Molto Reverendo il fatto
in succinto ma che può dar l’idea del macabro
sacrificio.
Virginio De Roit. - S. Maria di Camisano (Prov. Vicenza)”.
>>. (Da: “I PIARDI” vol. II, 2000. Documento
gentilmente concesso in Pezzaze, 19 ottobre 1999 da Ant. An.
Maf., nipote di Amedeo Battista Piardi).
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da BRESCIAOGGI del 13 agosto 2004.
Battista Piardi degli «Sgalmer».
Per l’anagrafe ‘morto presunto’.
Sono quasi sessant’anni che il nome di Amedeo Battista
Piardi lotta per non essere fagocitato nell’oblio, per
non finire nel magma indistinto dei dispersi in guerra.
È più di mezzo secolo che la tragedia di cui
è stato vittima il soldato partito da Stravignino di
Pezzaze non vuole saperne di morire nel flebile passaparola
familiare.
Adesso, a distanza di 58 anni, la fine di Amedeo Battista
Piardi riemerge in tutta la sua tragica dimensione. E fra
i parenti, oggi disseminati fra Valtrompia, Milano e Roma,
è un susseguirsi di telefonate accorate, di richieste
di dettagli, di invocazioni di giustizia.
Il sangue di Amedeo Battista Piardi da oggi scrive ufficialmente
una nuova pagina - gloriosa e dolorosa - della saga della
famiglia partita da Pezzaze e oggi disseminata in tutto il
mondo. Allo storico di questa saga familiare - Achille Giovanni
Piardi, che abita a Gussago - non sono bastate tremila pagine
a contenere un albero genealogico fitto di trame, storie grandi
e piccole, umanità calda e avvincente.
In questo volume enciclopedico il nome di Amedeo Battista
aveva, finora, poche righe. Ora s’è ritagliato
uno spazio tut to per sè.
Amedeo Battista Piardi era un rampollo della famiglia dei
Piardi "Sgalmer" di Stravignino. Il soprannome rimandava
- forse per la produzione, forse per l’uso assiduo da
parte di qualche antenato - ai rozzi zoccoli chiusi di legno
e cuoio usati dai malghesi dell’alta Valtrompia.
Amedeo Battista era nato il 19 dicembre 1917, era il terz’ultimo
di una nidiata di undici figli: i genitori erano Giovanni
Battista (morto nel ’46) e Rachele Ferraglio (morta
nel ’55). Di tutti i loro undici figli sopravvive, oggi,
solo la sorella Gemma, classe 1915, che abita a Roma. Un ramo
familiare, infatti, s’è trasferito nel Lazio
ai tempi della bonifica dell’Agro pontino. Altri sono
rimasti in paese, dove gestiscono il bar ex "Garibaldino",
altri sono andati a Lumezzane.
All’inizio della guerra Battista viene inquadrato in
fanteria, nel 153° battaglione mitraglieri che verrà
decimato dal fuoco alleato durante lo sbarco in Sicilia. Come
molti commilitoni, in piena guerra, Battista corona un sogno
d’amore, scommette sulla vita e si sposa. La moglie
è Anna Filippi, originaria di Schio, il matrimonio
viene celebrato il 7 aprile 1942 al santuario del Pasubio,
un sacrario della Prima guerra mondiale. Un matrimonio in
pieno stile bellico che rimanda Battista al suo reparto, nel
profondo Sud, con il cuore gonfio di malinconia.
A Santo Pietro, la borgata di Caltagirone dove il 153°
è acquartierato, i mesi scorrono lenti, fra un decollo
e un atterraggio dei bombardieri tedeschi diretti a Malta.
Poi l’offensiva alleata si avvicina e il 10 luglio scatena
tutta la sua potenza di fuoco. Quattro giorni dopo Piardi
è vittima inerme della ferocia di quei soldati arrivati
da lontano.
Finita la guerra la famiglia attende invano notizie di quel
figlio inghiottito dalla guerra, fino a quando arriva la lettera
del commilitone vicentino che chiede notizie di lui e, scoprendo
che non è mai tornato a casa, lo indica con certezza
fra i caduti sotto il fuoco alleato.
Da allora è come se il suo nome lottasse tenacemente
contro le tenebre dell’oblio. La moglie, che ha perso
la speranza di rivederlo e desidera risposarsi (andrà
a vivere nel Vicentino, poi a Milano), ottiene la dichiarazione
di «morte presunta» che tuttora risulta all’anagrafe
di Pezzaze.
Al momento di realizzare, nel 1954, il monumento ai caduti
di Pezzaze (voluto da don Francesco Gabrieli, allora prevosto
a Rezzato, e fatto con il marmo della ditta Gamba) in paese
si discute se includere i dispersi come Battista Piardi oppure
no. Una voce illuminata si alza nel comitato promotore: "Mei
mèt po’ tocc" (meglio metterli tutti). La
saggezza popolare sceglie di incidere sul marmo i nomi dei
figli di Pezzaze «ovunque e comunque caduti»,
e anche Battista Piardi trova il suo spazio.
Ma la sua sorte rimane indistinta, nebulosa, sempre in bilico
sull’orlo dell’oblio. Ora l’esplodere del
caso della «strage dimenticata» restituisce la
sua fine a una tragica notorietà, al doloroso ricordo
che merita.
Una delle poche fotografie superstiti ritrae Battista Piardi
in un raduno premilitare a Tavernole del Mella nel ’36.
In un tripudio di fez e camicie nere lui, spavaldamente, agita
una baionetta: simbolo tragico di una generazione di giovani
educati a illudersi che sarebbero bastati coraggio e baionette
per fermare tank, bombardieri e corrazzate venuti da lontano.
m. tedeschi. (Ha collaborato Edmondo Bertussi)
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da BRESCIAOGGI>. Sabato 14 Agosto 2004 cronaca
Pagina 13.
I giudici militari di Padova hanno aperto un fascicolo sul
massacro di Santo Pietro, avvenuto dopo lo sbarco alleato
del luglio 1943 in Sicilia.
Eccidio dei bresciani, indaga la Procura.
Amedeo Battista PIARDI.
Sarà interrogato il superstite di Vicenza. Acquisiti
i documenti pubblicati da “Bresciaoggi”.
A cura di Massimo Tedeschi (Giornale Bresciaoggi).
La giustizia militare cercherà di fare luce sui crimini
di guerra addebitati alle truppe alleate, compiuti in Sicilia
all’indomani dello sbarco del 10 luglio 1943.
L’attenzione della Procura militare di Padova si sta
concentrando su diversi episodi: uno di essi è la «strage
dimenticata» compiuta a Santo Pietro, borgata di Caltagirone
in provincia di Catania. In quella località, nei pressi
di una pista di atterraggio realizzata dalle forze dell’Asse,
una colonna (probabilmente di americani) si macchiò
il 14 luglio di 58 anni fa di un crimine orribile: l’esecuzione,
con colpi esplosi a sangue freddo, di 29 soldati italiani
e tedeschi che s’erano arresi dopo aver cercato di opporsi
a truppe allora considerate «nemiche».
La testimonianza di un superstite, il 92enne Virginio De Roit,
vicentino, interpellato da Bresciaoggi , ha indicato nitidamente
i nomi di nove soldati bresciani che facevano parte del drappello
falciato dalle raffiche dei soldati alleati. Nei giorni scorsi
abbiamo appurato che in realtà due di essi (Celestino
Brescianini di Pertica Alta e Santo Monteverdi di Carpenedolo)
sopravvissero miracolosamente all’eccidio. Gli altri
sette, però, negli archivi militari e comunali figurano
fra i dispersi o i «morti presunti»: sono Luigi
Ghiroldi di Darfo, Attilio Bonariva di Lozio, Leone Pontara
di Concesio, Battista Piardi di Pezzaze, Gottardo Toninelli
e Pietro Vaccari di Brescia, Mario Zani di Iseo.
Ora su quell’eccidio di Santo Pietro la procura di Padova
ha aperto un fascicolo. «Abbiamo disposto accertamenti
- spiega il sostituto procuratore, Sergio Dini - per i quali
abbiamo delegato i carabinieri del territorio competente.
Inoltre abbiamo acquisito la cassetta di un servizio del Tg
regionale della Sicilia, che ha raccolto una testimonianza
su uno degli episodi».
In questo momento l’attenzione dei magistrati con le
stellette è concentrata su tre distinti episodi, tutti
collocati fra il 13 e 14 luglio di 58 anni fa: la strage di
Acate (in cui caddero 73 soldati italiani e tedeschi e che
generò un processo immediato davanti alla giustizia
militare americana, come d documentato dal libro di Alfio
Caruso "Arrivano i nostri" e da alcuni articoli
sul Corriere della Sera di Gianluca Di Feo); la strage di
Piano Stella, in cui furono fucilati 8 civili inermi e a cui
si riferisce la testimonianza raccolta dal Tg regionale siciliano;
e infine la strage di Santo Pietro, che coinvolge appunto
i sette militari bresciani. Di quest’ultima strage sopravvivono,
con sicurezza, due testimoni: il contadino siciliano Giacomo
Lo Nigro e il vicentino Virginio De Roit, entrambi interpellati
nei giorni scorsi da Bresciaoggi .
«Abbiamo convocato il teste che vive vicino a noi -
spiega il sostituto Sergio Dini - e abbiamo disposto l’acquisizione
di documentazione». Nel fascicolo entrerà anche
la lettera del ’46 dello stesso De Roit, pubblicata
ieri da Bresciaoggi , che offre un racconto minuzioso, lucido
e choccante steso a soli tre anni di distanza dagli avvenimenti.
La distanza di tempo da quei fatti non scoraggia i giudici
in divisa: «Per l’omicidio plurimo - sottolinea
il pm patavino - non esiste alcuna prescrizione, come dimostrano
i processi a Priebke e ad altri ufficiali tedeschi».
La novità è che, con le stragi perpetrate nel
luglio del ’43 in Sicilia, lo scenario cambia, e gli
accusati dei crimini non sono militari tedeschi, bensì
soldati alleati che stavano piegando l’inattesa resistenza
opposta da italiani e tedeschi. Finora non c’era alcuna
traccia di queste vicende nei faldoni della giustizia militare
italiana, competente sui crimini di guerra di ogni esercito
compiuti su suolo italiano.
«Il famoso "armadio della vergogna" dimenticato
per anni - sottolinea infatti il pm Sergio Dini - conteneva
solo faldoni relativi ai crimini dell’esercito tedesco».
Nulla, invece, sui fatti di cui si macchiarono alcuni soldati
anglo-americani durante la liberazione dell’Italia.
A oltre mezzo secolo di distanza, finalmente, parlare di quei
crimini non è più un tabù. E la giustizia
militare, gli ultimi superstiti e gli storici possono collaborare
per ricostruire finalmente la verità su una pagina
dolorosa e tragica della nostra storia recente.
m. te.
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da BRESCIAOGGI di Giovedì 19 Agosto 2004 cronaca
Pagina 12.
IL GIALLO SULLA FINE DELLE SALME.
Caltagirone, al cimitero
non c’è traccia di loro «Qui non risultano
sepolti soldati bresciani».
Si tinge di «giallo» la storia dei soldati - fra
cui molti bresciani - caduti a Santo Pietro nei pressi di
Caltagirone il 14 luglio del 1943. L’eccidio, che si
inquadra nelle giornate di scontri furibondi e di esecuzioni
sommarie seguiti allo sbarco degli alleati in Sicilia, continua
a sollevare interrogativi non risolti sul destino delle salme,
sulle circostanze della loro sepoltura, sul luogo da additare
(a 58 anni di distanza da quell’episodio cruento) alla
pietà dei familiari che non hanno mai avuto un posto
dove deporre un fiore, uno spazio da consacrare al ricordo.
I bresciani coinvolti in quella strage restano collocati -
fino a prova contraria - nel novero interminabile dei «dispersi»
censiti dal ministero della Difesa dopo la fine della Seconda
guerra mondiale. Questa denominazione indica il fatto che
una tomba - ufficiale - non è mai stata trovata, e
una certificazione - incontrovertibile - della loro fine non
è mai venuta.
Eppure la testimonianza dell’ultimo loro commilitone
superstite, il 92enne Virginio de Roit, r accolta da Bresciaoggi
non lascia adito a dubbi: lui li vide cadere sotto una gragnola
di colpi esplosi a bruciapelo da alcuni militari alleati,
probabilmente americani.
Non aiutano a risolvere il «giallo» neppure le
carte del Comune di Caltagirone. Interpellato da Bresciaoggi
, l’ufficio ecologia (responsabile della gestione cimiteriale)
di Caltagirone ha chiarito che dei caduti bresciani - Luigi
Ghiroldi, Attilio Bonariva, Leone Pontara, Battista Piardi,
Gottardo Toninelli, Pietro Vaccari e Mario Zani - negli archivi
cimeteriali non c’è traccia.
Come ci scrive Francesco Gravina, responsabile dell’ufficio
del comune siciliano, «da verifiche effettuate agli
atti presso il locale cimitero non risulta sepolta alcuna
salma di militare avente nominativo indicato nella richiesta».
Il cortese funzionario di Caltagirone assicura che «verranno
effettuati altri accertamenti», ma per il momento il
destino delle salme conserva - come dicevamo - i caratteri
del giallo.
Che la ricerca non finisca qui è peraltro confermato
dalla decisione della procura militare di Padova di aprire
un’inchiesta sulla vicenda, per accertare eventuali
responsabilità di militari stranieri verso la strage
che - configurandosi come «omicidio plurimo» -
non è reato che possa cadere in prescrizione, neanche
a più di mezzo secolo di distanza.
Nel frattempo l’unica traccia per risalire al destino
delle salme dei venti e più militari italiani passati
per le armi dopo essersi arresi, rimane la voce del cavalier
Virginio De Roit, testimone anziano ma non smemorato. Proprio
de Roit nel 1946 scriveva al parroco di Pezzaze (titolare
della parrocchia da cui proveniva Battista Piardi, una delle
vittime bresciane): «Mi fu notificato dopo due mesi
circa che i resti delle salme poichè queste furono
bruciate vennero deposte nel cimitero di Caltagirone».
Dando per valida questa ricostruzione a posteriori, unita
al «silenzio» degli archivi cimiteriali della
cittadina siciliana, si può immaginare che gli americani
che si erano macchiati dell’eccidio - e che erano muniti
di lanciafiamme - cercarono di eliminare le tracce della loro
azione, non riuscendovi completamente. Solo più tardi
mani pietose avrebbero portato al cimitero quei resti - ormai
indistinti e anonimi - per dar loro cristiana sepoltura. Questo
potrebbe spiegare la mancanza di riferimenti nominativi, ma
non il silenzio assoluto dell’archivio siciliano circa
la sepoltura di militari caduti nel luglio del ’43,
dopo aver vanamente difeso la pista di atterraggio tedesca
di Santo Pietro, in borgata di Caltagirone.
m.tedeschi.
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