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Il viaggio in Brasile
del Vescovo, mons. Giulio Sanguineti, è un’occasione
speciale per conoscere le diverse realtà pastorali
e assistenziali sudamericane in cui sono impegnati i
sacerdoti bresciani Fidei Donum. Dalla loro voce, attraverso
una serie di interviste, è possibile cogliere
i tratti essenziali dell’esperienza missionaria
in corso e il senso che essa ha per l’intera Chiesa
bresciana. Don Angelo Piardi, nativo di Gussago, è
tornato in Uruguay lo scorso anno dopo esserci stato
per dieci anni, dal 1985 al 1996. La domanda è
d’obbligo: quali aspetti della vita di questo
Paese hanno subìto maggiori trasformazioni? «Mi
ha impressionato la violenza nei confronti delle donne:
in un paese piccolo con un numero relativamente basso
di abitanti, si uccide una donna ogni nove giorni.
Eppure c’è una scarsa consapevolezza dell’alto
livello di violenza domestica contro le donne, tanto
che l’Uruguay è uno dei pochi Paesi al
mondo che non possiede ancora una legge contro la violenza
domestica. Un dato su tutti: sono aumentate in maniera
notevole le gravidanze delle adolescenti, sostanzialmente
povere, troppo spesso vittime di violenza». A
proposito di procreazione, l’Uruguay è
un Paese che, a differenza di altri Paesi latino-americani,
ha scarsità di bambini e adolescenti. A cosa
è dovuta questa significativa situazione? «Credo
sia dovuto alla mancanza di speranza in un futuro migliore.
In Uruguay oltre la metà dei bambini che nascono,
nasce nella povertà, che rafforza il processo
di esclusione. Le disparità a livello di povertà
sono in aumento. La mortalità infantile è
diminuita, ma esistono differenze allarmanti fra le
varie zone.
Sulla ricca costa orientale di Montevideo è di
4 per ogni 1.000 nati vivi; nei quartieri periferici
di Montevideo vi sono 40 morti per ogni 1.000 nati vivi.
E poi il Paese è molto indietro nel campo dei
diritti dell’infanzia e della gioventù,
basti pensare che non ha ancora adottato la Convenzione
internazionale sui diritti dell’infanzia. Tutto
questo non aiuta certo a desiderare altri figli, oltre
al fatto che molti giovani uruguayani emigrano in cerca
di una vita più dignitosa». Eppure l’Uruguay
era un Paese, agli inizi del XX secolo, di forte immigrazione
soprattutto europea. Ora le cose vanno così male?
«Ripeto, anche qui manca speranza. Le imprese
assumono meno lavoratori e gli imprenditori sono piuttosto
pessimisti riguardo alla ripresa dell’economia.
Abbiamo avuto nello scorso anno un minor numero di posti
di lavoro praticamente in tutti i settori dell’economia.
La concentrazione delle vendite in mano alle grandi
catene di supermercati, la conseguente scomparsa dei
piccoli esercizi commerciali e lo strangolamento economico
dei fornitori, praticamente tutte multinazionali occidentali,
comportano la perdita di migliaia di posti di lavoro.
L’elemento peculiare è la capacità
di espansione delle grandi catene dei supermercati che
stanno trasformando l’Uruguay in un unico, grande
oligopolio. Non esiste alcun esercizio commerciale che
non si senta colpito, in misura più o meno grave,
dall’enorme potere dei supermercati. Purtroppo
la resistenza politica è arrivata in ritardo.
Ma ciò evidenzia le peggiori conseguenze del
libero commercio, senza regole né autorità
veramente in grado di regolamentarlo. L’ultima
indagine sul reddito familiare ha scoperto che il 25%
delle famiglie uruguayane guadagna meno di 5.000 pesos
uruguayani al mese, poco più di 400 dollari».
E riguardo alla sua attività pastorale in Uruguay
ed al cammino della Chiesa, cosa ci può dire?
«È ancora la speranza che anima il cammino
della Chiesa in Uruguay.
L’atavico laicismo del popolo e l’indifferenza
religiosa, caratteristiche dell’uomo uruguagio,
invitano la Chiesa a una pastorale di annuncio e testimonianza
dei valori evangelici, fatta di accompagnamento e attenzione
alla persona e di formazione per un laicato più
maturo e protagonista. Riguardo alla mia attività
pastorale in particolare mi trovo a dovere fare i conti
con l’urgenza di una laicato maggiormente formato
e preparato a contrastare il dilagare delle sette, a
preparare gli animatori delle comunità di base
e rimotivare il senso del vivere a una gioventù
sull’orlo della delusione e senza prospettive
per il futuro».
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